"Ex Machina", un film per parlare del futuro dell’uomo

par Leandro Malatesta
sabato 15 ottobre 2016

Cos'è un film, se non il risultato di una creazione umana?

Iniziare un elaborato con una domanda non è forse sintatticamente corretto ma il film in questione rende necessaria questa domanda come ne emergeranno altre nel corso di questo mio scritto.

 

“Ex Machina” è una pellicola del 2015 capace di vincere l'ultimo premio Oscar per i migliori effetti speciali ricevendo anche una candidatura per la miglior sceneggiatura.

Ritengo però che sia limitativo parlare dei premi vinti e che questo film sia molto importante non solo per il percorso del cinema ma anche e sopratutto per il percorso degli esseri umani; per gli interrogativi che il proprio sottotesto ci pone.

Il regista Alex Garland (qui all'esordio dietro la macchina da presa) dopo diverse buone sceneggiature e la proficua collaborazione con il regista Danny Boyle decide di intraprendere con Ex Machina un viaggio nella fantascienza umanistica.

I protagonisti sono Caleb Smith (l'attore Domhall Gleeson) un giovane programmatore il quale si aggiudica la possibilità di trascorrere assieme all'amministratore delegato della società di informatica per la quale lavora (Blue Book il nome della società) una settimana di vacanza nella residenza di montagna di quest'ultimo.

Lo scopo del dirigente (interpretato da Oscar Isaac) è quello di avvalersi della collaborazione del proprio dipendente per mettere alla prova nel test di Turing l'Intelligenza Artificiale di Ava, macchina umanoide progettata e costruita dallo stesso amministratore delegato e della quale nessun altro è a conoscenza.

Ava ha il volto (così si può letteralmente dire perché per quasi tutto il film di umano in questo personaggio vi è solo il viso) di una bravissima Alicia Vikander che con la grande eleganza recitativa che la contraddistingue dà forma ad un personaggio molto complesso e di non semplice lettura

Sarà infatti la complessità della macchina a rompere gli equilibri e a condurci verso il climax finale.

Il desiderio di voler raccontare l'ambizione dell'uomo di essere Dio guida la narrazione del regista inglese e mette lo spettatore con le spalle al muro inchiodato dall'ambiguità dello spingersi oltre quelli che sono i propri limiti o presunti tali.

Il matematico americano John McCarthy nel 1956 fu il primo a coniare il temine A.I. (Artificial Intelligence).

Da allora ad oggi sono passati sessant'anni. Il progresso in questo campo di ricerca è stato evidente ma alcune domande restano ancora inevase e la paura di affrontarle fino in fondo ne condiziona il percorso.

E' impossibile parlare di queste cose senza riferimenti etici, morali fino ad arrivare a quelli legali.

Fino a che punto è giusto spingersi?

Che grado di autonomia è giusto fornire ad una macchina?

E' forse corretto illudere un essere artificiale limitandone la propria esistenza?

Fino a quanto potrebbe essere libera l'intelligenza di una macchina creata da mano umana?

Ma il quesito che sta alla base è perché cercare di progettare la A.I.?

Una prima risposta potrebbe essere quella per la quale l'uomo avendo paura della propria fine cerca di sentirsi immortale attraverso la costruzione di macchine umanoidi.

E allora ciò porrebbe un altro interrogativo, sarebbe giusto creare degli esseri artificiali solo perché essi diventino le “nostre ruote di scorta” portandoci così verso il compimento di una eugenetica certamente egoistica.

Verrebbe poi naturale dire che la seconda risposta alla domanda è che a spingere l'uomo verso un passo così grande ci sarebbe sicuramente la volontà di colmare la propria solitudine.

L'assurdità in questo elemento sta nel fatto che l'incapacità di comunicare tra di noi essere umani è diventata tale da spingerci a desiderare la creazione di macchine con le quali sostituire il nostro prossimo.

Ma una volta realizzato ciò saremmo così maturi da non tradire la fiducia degli umanoidi?

E ancora, la A.I. creata dagli umani sarà scevra da ogni nostro limite o ripeterà i nostri errori condizionata dalle nostre stesse paure.

Abbandonando i quesiti la speranza mia, che ho scritto questo articolo è quella di non aver portato il lettore troppo lontano dal motivo originale che mi ha spinto a scrivere e cioè parlare di un film interessante come Ex Machina.

In questo lavoro, da un punto di vista della critica cinematografica, va sottolineata la regia che scorre pulita e che si mostra capace di tenere il ritmo del racconto in equilibrio giocando sul dualismo dei due protagonisti. Rapporto binario anche quello dell'ambientazione; dove alla claustrofobia degli interni inespugnabili si contrappone la vastità della natura dei boschi norvegesi.

L'importanza di questo film è data anche però dal fatto che esso come già detto è capace di andare oltre il recinto filmico creando un cortocircuito di domande che necessitano tempo ed un serio e profondo impegno per trovare le risposte adeguate.

Blaise Pascal filosofo e matematico francese diceva che “nel cuore di ogni uomo c'è un vuoto che ha la forma di Dio” ed ecco allora che un film come Ex Machina sembra volerci dire che questo senso di vuoto può essere colmato solo smettendo di giocare a fare Dio, isolandoci in bunker fisici e ancor prima in bunker dell'anima, ma aprendoci invece verso gli altri incondizionatamente.

E se la nostra fiducia dovesse in qualche modo venire tradita questo non sarebbe comunque un buon motivo per smettere di continuare a provarci.


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