Essere o non essere (charlie)

par Fabio Della Pergola
giovedì 22 gennaio 2015

Con i fatti di Parigi si sono delineati (sinteticamente) due schieramenti: quelli che “je suis Charlie” e quelli che invece no, non sono Charlie.

Due schieramenti che ripropongono (sinteticamente) i valori della Rivoluzione francese come discriminante: di qui i progressisti, fautori della libertà di espressione senza se e senza ma. Di là i sostenitori del limite d’autorità posto alla libertà d’espressione, da stabilire perché non sia offesa la sensibilità dei religiosi (con tutti i rischi che poi questi limiti si allarghino a dismisura a seconda delle contingenti necessità dei potenti).

Nonostante la minaccia di essere preso a pugni dal Papa, la cosa dovrebbe essere risolta in modo estremamente semplice: se non ti piace Charlie Hebdo (o qualsiasi altro equivalente) non lo compri. Se non ti piace questa trasmissione cambi canale. Se non ti piace quella vignetta non la guardi. Oppure la guardi e la critichi, anche irridendola ed applicando così la stessa “arma” della satira e della critica che la libertà di espressione prevede e ti concede, alla faccia di chi si crede intoccabile e indiscutibile.

Nello stesso tempo è ovvio che gli esponenti di tutte le religioni (di tutte le religioni, lo ripeto a scanso di equivoci) nel voler impedire la satira su Maometto, Dio, la Madonna e quant’altri, agiscono in modo invasivo: io non voglio che tu pubblichi quella roba, anche se in ogni caso non l’avrei guardata mai. Questa si chiama censura e oppressione culturale. Ed è giusto contrastarla perché la libertà di parola, nei fatti, è costata troppo sangue, sudore e lacrime per farsela scippare.

Sulla possibilità di irridere anche le religioni e i loro testi o immagini sacre si scontrano in questi giorni, anche nel mondo secolare, i pareri di chi vuole porre un limite e chi non ne vuole nemmeno sentir parlare: Moni Ovadia fra i primi ("Il pugno di Francesco è lungimirante"), Daniele Luttazzi, manco a dirlo, fra i secondi ("ogni religione, senza sense of humour, diventa fanatismo").

La libertà di parola è però - lo dico con tutto il rispetto che nutro per essa - assolutamente parziale. Perché il vero potere, quello che uccide la vera libertà, sta altrove. E, limitandoci alla libertà di espressione, è capacissimo di impedirti di parlare con mezzi che vanno dalla gogna pubblica al vero e proprio linciaggio, ne sono testimonianza le vittime del famoso “editto bulgaro” di berlusconiana memoria (e non solo loro), per arrivare alla galera o all’assassinio puro e semplice.

Fino al drammatico totale di 96 morti nelle file degli addetti alla comunicazione (giornalisti, assistenti e citizen journalist) solo nel 2014. Ne parla Reporter senza frontiere che ovviamente non ha dubbi: loro “sono Charlie” !

Ma accanto ai morti di Charlie Hebdo c’è stato un secondo attentato questa volta non determinato dalla professione ritenuta “blasfema” dei vignettisti, o dalla morte non pianificata dei loro ospiti e dei poliziotti, ma dalla pura e semplice appartenenza etnica delle vittime: gli ebrei del negozio kasher.

E qui, alla fine, ogni già fragile universalità d’intenti - per quanto pesantemente ipocrita - si incrina. Perché ben pochi, comunità ebraiche a parte, hanno issato il cartello con su scritto “je suis Juif”.

In Italia ricordo solo un Furio Colombo, ma anche un - peraltro mai tenero con le politiche israeliane - Ugo Tramballi che ha saputo coniugare il proprio personale e politico astio per Benjamin Netanyahu con una dimensione profondamente umana di rispetto per le persone, ebree perché casualmente nate e cresciute in famiglie appartenenti a quella comunità, e uccise in quanto ebree.

Un attentato che ho definito manifestazione di antisemitismo razzista non diverso da quello degli anni ‘30, come peraltro ha fatto anche Adriano Prosperi su left.

Alla fine “Mi ha fatto arrabbiare - lo dice Tramballi, non io - sentire Netanyahu dire che gli ebrei francesi, e di conseguenza quelli di tutta Europa, sono al sicuro solo in Israele. Ma sono esploso dalla rabbia constatando che ha ragione: detesto riconoscere che Bibi Netanyahu possa avere ragione. E’ vero, gli ebrei europei sono in pericolo a casa loro”.

E ancora “La stragrande maggioranza dei musulmani immigrati, italiani di prima e seconda generazione, non ha nulla a che fare con il califfato - ma, aggiunge - nei nostri musulmani la questione palestinese, l’occupazione israeliana e gli ebrei vengono messi confusamente sullo stesso piano”. Non solo loro, si direbbe, a leggere certa stampa e certi blog.

Gli ebrei però - afferma Tramballi - hanno tutti i diritti, etici e storici di sentire un legame emotivo con lo stato di Israele, che è nato, dopo una dozzina d’anni di discriminazioni e persecuzioni culminati nello sterminio, come stato “ebraico” perché così lo definisce la risoluzione dell’assemblea dell’ONU del 1947.

Ciononostante è ben noto che ci sono molti ebrei, israeliani e non, critici con le scelte dei governi di Israele, in special modo quelli degli ultimi anni.

Così come è noto anche che esistono organizzazioni e tendenze fortemente religiose e del tutto aliene allo stato nazionale e alle sue leggi; vedi gli haredim israeliani, ma anche i Neturei Karta che, ad ogni manifestazione antisionista, si presentano sventolando bandiere palestinesi.

Minoranze, indubbiamente, ma minoranze che sono state utilissime finora ai molti appartenenti alle frange anti israeliane del mondo politico internazionale per affermare con convinzione di essere “antisionisti, non antisemiti”.

Ma abbiamo dovuto leggere, a proposito dell’attentato al negozio kasher, che questo non è un gesto di antisemitismo (lo sostiene anche Tramballi, e su questo non sono ovviamente d’accordo con lui). E' invece una cosa "comprensibile" dal momento che “gli ebrei” (sia chiaro gli ebrei, non gli israeliani) sono in guerra con gli islamici.

Così diventa logico che ogni ebreo, qualunque cosa pensi, comunque interpreti il suo legame (o la sua distanza da Israele), qualunque cosa faccia o non faccia e ovunque sia nel mondo... si trova, di default, arruolato nel conflitto.

Cade quindi ogni barriera: ogni ebreo può essere colpito ovunque si trovi perché non è più il vicino di casa con cui accapigliarsi (oppure no) per le sue diverse idee politiche: è un nemico.

Quello che le organizzazioni palestinesi hanno rifiutato di fare (almeno dalla fine degli anni '70) - colpire gli ebrei indipendentemente dal fatto che fossero israeliani o no - oggi diventa possibile con le nuove leve del fondamentalismo, manovrate da burattinai oscuri.

Specularmente, è l’ovvia conseguenza dell’aver trasferito il conflitto dalla sua realtà territoriale a una dimensione delirantemente etnico-religiosa, ogni arabo (che, in quanto arabo, si suppone possa essere filopalestinese) può essere colpito in quanto nemico. Perché "se ti attaccano in quanto ebreo - lo diceva anche Hanna Arendt - devi rispondere da ebreo".

Inutile aggiungere quanto possa essere pericolosa e pericolosamente devastante questa logica.

Qualcuno crede che sia sufficiente “laicizzare” il mondo (come se fosse facile) o inneggiare all'ateismo per arginare questa deriva, ma temo che se non si ferma per tempo l’idea che il conflitto sia etnico il futuro sarà ben più nero delle bandiere nere dell’ISIS.

Nel frattempo tra antisionismo e antisemitismo sembrano collassare le già esili differenze; tranne che in Tramballi il quale, umanamente, conclude “se non ero proprio sicuro di essere Charlie, ho il dovere di sentirmi orgogliosamente ebreo”.

Foto: Guillaume Galmiche, il suo sito è qui


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