Essere condannati per una "faccina". Il caso di twitter e Sally Bercow

par Emanuele Rossi
giovedì 30 maggio 2013

Premessa, questo è un articolo che parla di internet, in particolare di Twitter. Potrebbe anche sembrare un discorso accademico, bizantino, o autoreferenziale, quasi manieristico: una sorta di parlarci addosso. Ma così non è e l'argomento merita ampia discussione e riflessione. Perché vuoi o non vuoi certe questioni riguardano tutti noi.

Su Il Post di giorni fa, c'era pubblicato un articolo che racconta una storia che in Inghilterra sta facendo discutere da un po' di tempo. Si tratta della denuncia fatta da Lord Alistair McAlpine contro una diffamazione subita proprio sul social network di Dorsey.

L'articolo è completamente esauriente e spiega molto bene nel dettaglio l'accaduto, per cui mi limiterò a sintetizzare sommariamente i fatti - perché non è di quelli che voglio parlare - solo per comodità di trattazione.

Dunque, è successo che la sig.ra Sally Bercow, che è la moglie di John Bercow (lo speaker della House of Commons), qualche mese fa inviò un tweet mentre andava in onda un'inchiesta di Newsnight (programma giornalistico della BBC) in cui si parlava di un politico conservatore di primo piano (si diceva addirittura un ex ministro, ma senza fare nessun nome) accusato di aver compiuto abusi sessuali durante il governo Thatcher.

Il tweet diceva

"Perché lord McAlpine è un trend topic su Twitter? *faccina innocente*". 

Durante il programma girò molto su Twitter la voce che potesse essere proprio lord McAlpine il politico in questione, anche se non uscì mai nessun nome dalla BBC. McAlpine si sentì diffamato e denunciò la tv e gli utenti on line che avevano usato frasi denigratorie o diffamatorie (o ritenute da lui tali) nei suoi confronti. Decidendo di far pagare 25 sterline in beneficenza agli anonimi (nel senso anche lato, e cioè di non conosciuti, non famosi, ordinari e non personaggi pubblici) e metterci per questi una pietra sopra. Mentre per una ventina di celebrità passò alle vie legali. Tutti, meno Bercow, scelsero di ammettere le proprie responsabilità e chiedere pubbliche scuse e pagare (chi con emolumenti devoluti in beneficenza, chi svolgendo servizi sociali) per le proprie colpe. La Bercow decise di andare in giudizio: è di questi giorni la sentenza che l'ha dichiarata colpevole. La sentenza tra l'altro dice: "Twitter non è diverso dalla vita reale. Le persone devono capire che non è come fare quattro chiacchiere con gli amici davanti a un caffè".

La storia ha una morale profonda, scivolosa, complicata e destinata a protrarsi nel tempo. Un paio di questioni mi sembrano adesso, al volo, più importanti delle altre.

Per prima cosa, la funzione, ossia la definizione di Twitter (e dei social network in genere). Che non è un posto, luogo, dove la gente dice cose a caso senza alludere a niente. La sentenza considera Twitter alla stregua dei media tradizionali, ma soprattutto allo stesso modo di tutti gli altri contesti analogici, quelli che qualche infingardo continua a chiamare ancora "reali".

E poi, la conseguenza di questo. La responsabilità. Personale, sia chiaro, di dire quello che si vuole - la libertà è la base di tutto - ma con la consapevolezza di quel che si dice. Ancora di più: la consapevolezza che quel che si dice, può essere oggetto di giudizio, di leggi e di pene. E che non è un chiacchiericcio al vento. Circostanza questa, che sebbene può essere vista anche con dei lati negativi - il rischio di limitare quella libertà, censurare, porre imprimatur -, ma ha indubbiamente degli aspetti fortemente positivi. Aspetti che remano verso una legittimazione - qualora ci fosse ancora bisogno, per i soliti pigri - definitiva di quegli spazi. E verso una regolamentazione dei comportamenti.

Ammesso però, che ce ne sia davvero necessità. Perché senza esagerare, si sa che la Rete è questo: è tanto, è bello, ma è anche troll, insulti e chiacchiericcio. Però la responsabilità di quello che si dice, resta. Sempre. Soprattutto questa responsabilità è un dovere dei cosiddetti influencer, di quelli che rappresentano gli opinion leader, che spostano il punto delle discussioni e spesso la discussione la creano. Un po' come il top player che fa un fallo di reazione o gol di mano. Ma allora, il problema non sta nelle norme, nelle leggi, nel diritto: il problema è di autoregolarsi, di gestirsi, questione di etica e di morale personale, in un codice proprio, in un deontologia responsabile assolutamente funzione anche del ruolo sociale - senza illudersi che non esistono: io non valgo Matthew Ingram, o no?! - che si occupa. Il problema dunque è delle persone.

Il fatto stesso che riguarda quelle posizioni sociali - gli influencer sono il riferimento - e la funzione pedagogica, istruttiva, l'esempio per dire, che incarnano, è un ulteriore spunto di riflessione. E non è proprio che si diventa tanto più responsabili, quanto è maggiore il numero dei propri followers, ma in fondo è un po' anche così. Perché si spostano idee, si muovono menti e si creano pensieri: e di quelli si è responsabili nel momento in cui si decide di metterli in piazza. Altrimenti si scrivono su un diario, lo si mette in un cassetto e si chiude con una chiave.

Poi il fatto che nel merito, il tweet di Bercow non era così offensivo o infamante, è un'altra cosa. Che il giudizio espresso da una corte. Ma che apre anche un altra problematica, che si legge nelle parole stesse di Sally Bercow: "La sentenza di oggi è un serio avvertimento per tutti gli utenti dei social media. Quello che dite può essere ritenuto diffamatorio anche se diffamare non è la vostra intenzione, anche se non fate alcuna accusa esplicita". Altro aspetto che fa indubbiamente riflettere, su questa spinosa questione di internet e del modo di starci bene dentro.

Ho paura che tutto il discorso, non finirà qui.

ps. a proposito della responsabilità, quel libro di Andrea Salerno dice:

Responsabilità. Siamo spiacenti, la voce non risulta.

@danemblog


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