Elena Valdini - Strage Continua (seconda parte)

par Patrizia Dall’Occa
sabato 27 dicembre 2008

"Prima di tutto le parole, precise, sobrie, accurate, perché non possiamo permetterci di spenderne di inesatte. È una “strage”, vale a dire “uccisione violenta di un gran numero di persone” , ed è “continua” perché sulle strade d’Italia, ogni giorno, muoiono minimo sedici persone".

La parte conclusiva del libro di Elena ci racconta di dieci monologhi che l’autrice va leggendo nelle carceri; scritti realizzati da lei stessa, per epurare il dolore e rendere un "avvenimento astratto" un fatto concreto, una completaezza di dettagli che esulano dalle parole, per diventare emozioni, cuore che batte, viso che sorride. Descrizioni che di trasformano in persone, in parenti, amici, conoscenti. Un mondo reale a cornice di un semplice evento di cronca.

Parlando con lei ho deciso che non aveva senso realizzare un’intervista sul suo libro. Sarebbe stato come copiarlo pari pari. Così, nella prima parte, ho lasciato, su sua indicazione, che fossero alcune righe scritte esclusivamente per la redazione del testo a parlarci di lei e della sua esperienza.
Ora, siamo qui per ascoltare un monologo in più, quattro righe, che rubano il tempo necessario ad una riflessione più attenta, che stimolano le sinapsi addormentate, che scuotono più di quanto non si creda in prima battuta.
Un piccolo monologo che Elena ha realizzato solo per noi, solo per questa occasione.
Poche parole per fare sì che il suo lavoro non rimanga incompiuto, perché tutto ciò che ha un fine prevede evoluzione, modifica, nessuna paura e tanta audacia.

Ringrazio Elena prima di lasciarle la parola, per la sua tenacia, per essersi resa disponibile in questi tempi strettissimi, sotto Natale, in mezzo a mille altri impegni.
Grazie, per la condivisione e la grande emozione.



"Non chiamiamoli incidenti, non sono tutte fatalità, troviamo altre parole che non anticipino nel loro significato una giustificazione: “E’ stato un incidente”, vale a dire ‘era inevitabile’, ‘non poteva non accadere’.
Potremo smettere di piangere sulla strage stradale nello stesso momento in cui smetteremo di giustificarci. Chiamiamoli “scontri”, sostantivo che interroga. La prima domanda: perché? Droga, alcol, velocità, nebbia, ghiaccio, neve, la radio che non funzionava, il telefono che squillava? Individuando le cause potremo capire se è più corretto parlare di scontro o di incidente.
 
È un sforzo molto faticoso opporsi alla rimozione: parlare della strage stradale non piace, non va. E credo che non piaccia perché invita a un’autocritica quotidiana: come guido? Rispetto le regole? Ho fatto questa domanda al primario di uno di quegli ospedali che ospitano i sopravvissuti agli scontri stradali, persone che hanno perso l’uso delle gambe. Ha dato una risposta molto intelligente: ha detto che certamente guarda alla strada con gli occhi del suo ospedale, ma che non possiamo essere prigionieri della paura; conoscere i reali rischi che si corrono in strada rende più attenti e quindi più liberi, perché conoscenza è libertà. Avrebbe potuto parlare di sofferenza, invece ha parlato di attenzione, quella stessa attenzione che nasce dal dolore. E parlando di libertà ha parlato di speranza.
La prima volta che ho perso una persona cara in uno scontro stradale avevo sedici anni, né oggi né allora ho mai saputo tenere un diario, ma ricordo due frasi appuntate il giorno dopo: rifiutavo il concetto di fatalità e mi stordiva pensare che quel nome aveva aumentato di un’unità la cifra di una tabella. Mi sono rifugiata in molte letture, ho cercato precisione ed esattezza e poi ho cercato testimonianze d’impegno quotidiano e costruttivo per provare a comprendere le ragioni di questa strage continua e inaccettabile.
Credo, in parte, di averle comprese, sono molte e ho tentato di raccontarle. La principale si sente ma non si vede: è l’indifferenza che si nutre di fatalità e produce rimozione.
 
Ho ascoltato, appuntato e ripetuto molte volte una frase della presidente dell’Associazione italiana familiari e vittime della strada, Giuseppa Cassaniti Mastrojeni: “I tempi sono maturi perché qualcosa cambi”. Ho scoperto che ciascuno di noi può contribuire al cambiamento: è il rispetto delle regole.
Sarà il nostro senso civico".

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