Egitto, dagli scontri al conflitto
par Enrico Campofreda
domenica 27 gennaio 2013
La spirale di morte non s’allontana dall’Egitto. Le ventuno pene capitali comminate agli ultras del club Masry per la strage dello Stadio di Port Said (72 vittime, in gran parte tifosi della squadra cairota Ahly) propone uno scenario di guerra. I familiari dei condannati hanno tentato l’assalto alle carceri nel tentativo di liberare i congiunti, ne sono seguite sparatorie con le forze dell’ordine e una lunga scia di sangue: ventotto vittime, un paio sono poliziotti.
All’odio contro i giudici degli abitanti locali s’è contrapposto quello delle Forze dell’Ordine per l’uccisione dei commilitoni. Il tutto sullo scenario di trentasei ore di scontri iniziati la notte precedente alle manifestazioni che ricordavano il secondo anniversario della rivolta contro Mubarak che il Fronte di Salvezza Nazionale trasformava in protesta contro il “regime di Mursi”.
I giudici hanno voluto offrire un verdetto draconiano a una delle vicende oscure della gestione post Mubarak del Consiglio Supremo delle Forze Armate. La strage dello Stadio del 1° febbraio 2012 vedeva i tifosi del Masry manovrati da probabili infiltrati intenti a punire una frangia della tifoseria del clan calcistico cairota sempre presente nelle mobilitazioni di piazza Tahrir. Gli infiltrati puntavano a punire l’anima ribelle dell’Ahly, mentre i fan del club avversario vivevano solo la rivalità calcistica. Ma per quegli scontri non c’erano presupposti d’istintualità agonistica (il Masry aveva vinto) e l’eccesso di violenza superava di molto ogni conflitto sportivo.
Si trattò di uno dei molteplici episodi che seminavano morte e terrore usando picchiatori prezzolati e agenti infiltrati che hanno caratterizzato la Giunta Tantawi. Anziché cercare e svelare quelle trame la magistratura condanna le pedine, dirette o ignare, e applica il massimo della pena che neppure il vecchio raìs e il suo sodale Adly avevano ricevuto per gli 800 morti provocati durante i 18 giorni della rivolta del 2011.
Le forze politiche sono le responsabili di quest’instabilità. Sicuramente le islamiche che governano tramite il presidente Mursi e il premier Qandil, accusate d’immobilismo e accentramento del potere e di occuparsi soprattutto di quest’ultimo. Ma l’opposizione non è esente da colpe specie nella reiterata pratica di un contrasto cui si risponde solo con slogan e ben poche proposte su economia e anche sulle prospettive di un governo alternativo. Mentre Mursi, vista la gravità della situazione ha annullato il previsto viaggio in Etiopia richiamando Qandil dall’assise di Davos, s’appresta all’ennesimo discorso alla nazione, la triade ElBaradei-Moussa-Sabbahi, finora riottosa agli inviti di collaborazione, lancia una proposta basata su quattro punti: creazione di un governo di unità nazionale, annullamento della Costituzione, annullamento della legge elettorale, riconciliazione fra le parti senza precondizioni dell’attuale governo. Richieste ancora una volta unilaterali che potrebbero essere respinte almeno per metà. E dunque la giostra torna al punto di partenza e gioca non solo col sangue degli ultimi Mohammed diventati martiri (quattro delle prime sette vittime di Port Said si chiamavano così) ma gioca stavolta col fuoco d’una contrapposizione che imbocca la strada dell’odio. A questo punto l’arma della democrazia potrebbe perdere quest’ultima prerogativa assumendo solo i contorni dello scontro cieco che non costruisce il futuro. Va ad azzerarlo.