Egitto: “Dagli intellettuali stimolo per l’emancipazione, non alibi per uno Stato autoritario“
par Enrico Campofreda
martedì 23 luglio 2013
L’Egitto che avanza e torna sui suoi passi. Non si libera del vizio atavico della tutela dell’uomo forte spalleggiato dalle divise e sotto lo sguardo di un Occidente, amico totalmente interessato. Abbiamo ascoltato sul tema i pareri di due giovani intellettuali, un docente universitario e un regista che vivono fra l’Italia e le sponde del Nilo. Il primo intervistato è Muhammad Abdel Kader è un professore di Italianistica che ha concluso la specializzazione presso l’Università di Tor Vergata in Roma. È recente vincitore di un concorso per la cattedra all’Università di Helwan a sud del Cairo. Originario del quartiere cairota di Maadi vive tuttora a Roma in attesa dell’avvìo dell’incarico.
Professore quello del 3 luglio è un colpo di Stato oppure no?
Democrazia: qual è il rapporto che la nazione ha con questa che lei definisce la "nuova creatura nella vita egiziana"?
È un rapporto legato ai militari, purtroppo. Non si tratta del primo golpe, più o meno mascherato. Nella storia del Paese – da re Farouk a Naguib – i colpi di mano rientrano nelle ipotesi praticate per raggiungere il potere. Posso capire che ci sia una consistente fetta della popolazione attratta dall’uomo forte perché siamo di fronte a un popolo che conta un 40% di analfabeti e un 50% di poveri. Elementi oggettivamente deboli, manipolabili, ricattabili da ogni parte politica. Per questo uomini forti affascinano molta gente. Però mi stupisce che intellettuali come Al-Aswani, e anche scrittori capaci si lancino in operazioni di copertura della repressione. È vero che costoro detestano l’Islam politico, ma da qui ad appoggiare i militari ce ne passa. Sull’altro fronte la Fratellanza e recentemente il salafismo mostrano leader dal linguaggio inadatto e aggressivo. Se però si parla d’intolleranza e violenza, beh la Confraternita non avalla nessun estremismo, alcuni suoi attivisti possono essere violenti come lo sono i giovani di Tahrir o certi Tamarod. In un cartoon tedesco ho visto una semplificazione della nostra situazione politica. Il regista mostrava da una parte liberali e intellettuali di sinistra che lodano l’intervento dell’esercito, dall’altra varie componenti dell’Islam politico, dai moderati della Fratellanza ai miliziani jihadisti che hanno abbandonato le armi, accettato la democrazia, partecipato e vinto alcune elezioni (Gamaa Al-Islamya, ad esempio, ndr). Gli intellettuali erano tutti nella prima frazione. È una ricostruzione schematica ma vera perché la storia della nazione vede l’intellighenzia legata unicamente alle esperienze post-coloniali che hanno avvicinato le speranze nazional-socialiste a un orgoglio smarrito.
Dirigenza islamica e dirigenza laica, un dialogo impossibile?
Eppure gli oppositori della Fratellanza l’accusano di aver occupato ogni posto di potere, come mai i propri uomini mancavano in settori economici strategici?
La Fratellanza mancava e manca delle risorse umane per gestire tali settori. Superati i momenti più duri delle persecuzioni passate gli islamici hanno potuto anche formare una propria classe dirigente all’estero - un esempio è la generazione dei Mursi - ma alle eventuali competenze teoriche non hanno aggiunto le conoscenze dei gangli del sistema interno. Per fare ciò serve tempo, occorre stare in quelle strutture, verificarne funzionamenti e disservizi, per gestirli e magari migliorarne i meccanismi. Bisogna interfacciarsi con personaggi inseriti in contesti nazionali ed esteri. E questi in genere sono feloul e filo occidentali che non ammettono ingerenze.
Un’altra debolezza dell’Islam politico egiziano sta proprio nel rapporto col mondo culturale e gli intellettuali: i Fratelli Musulmani si pongono il tema dell’egemonia?
Iniziano a porselo e certamente lo scippo di governo li farà riflettere. Nel rapporto con l’opinione pubblica più acculturata, coi ceti medi e coi giovani l’Islam politico paga carenze del suo apparato intellettuale. La Fratellanza, e gli stessi salafiti, hanno una leadership ideologica e magari vantano qualche teologo, sebbene l’importante centro di Al-Azhar si tenga lontano da connessioni partitiche. Non mostrano, però, teorici che usano strumenti tradizionali come la letteratura o la diffusione tramite nuovi media. Curano l’informazione, ma in posizione minoritaria visto che nel Paese prevalgono i network impregnati di cultura occidentale, il divario coi modelli tradizionali è ancora enorme. Comunque traspare qualche segnale, dal superamento della chiusura settaria che un tempo faceva disconoscere a un leader della Confraternita il valore di Mahfouz (successivamente quel politico fece marcia indietro parlando a favore del nostro premio Nobel) all’elaborazione critica operata da giovani acculturati. Ho assistito a un dibattito televisivo in cui dei ragazzi egiziani dialogavano e controbattevano senza remore e con capacità analitiche e dialettiche a un noto intellettuale progressista filo americano, opponendogli il desiderio d’una ricerca che superasse stereotipi datati e stantii. La strada d’un nuovo Egitto passa anche per una nuova interpretazione del ruolo della cultura. E nella conseguente lotta per l’egemonia non è scontato che il panorama resti bloccato. Islam politico e orgoglio identitario laico non succube di un Occidente dal “pensiero unico” possono entrare in gioco, nella cultura oltre che in politica.
Una delle maggiori paure diffuse dagli oppositori a Mursi riguarda la Shari’a introdotta dalla Costituzione che ora si vuole emendare.
Ho letto la Costituzione introdotta nello scorso novembre e non vedo dove s’annidi la Shari’a. Gran parte della Carta ripercorre i passi di quella del 1971, i timori sono una cosa, le fobìe un’altra. Dietro un’esasperazione di questo tema si può celare il tentativo di umiliare la tradizione islamica del Paese che nessun presidente, anche il più laico come Nasser, aveva intaccato. E c’è un ulteriore fattore da considerare. Il rovesciamento delle conquiste partecipative qual è l’espressione democratica del voto, raggirato e umiliato dal colpo di mano militare, può produrre scompensi nella popolazione specie più giovane. Chi attacca frontalmente la Fratellanza non considera la moderazione di questa forza, il suo accettare confronto e democrazia borghese. Indurre tanti giovani a una perdita di fiducia nelle istituzioni e negli strumenti pacifici può spostare la massa verso quel fanatismo predicato da un altro Islam: il jiahadismo qaedista. Esso sì rappresenta – a mio avviso – un pericolo visto ciò che accade nei Paesi limitrofi. Puntare a destabilizzare la più grande nazione araba fomentando contrasti da guerra civile è quanto di più sciagurato la politica possa fare.
(segue)
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