Economia, etica e neoliberismo
par Lionello Ruggieri
mercoledì 4 luglio 2012
E' giunto il momento di ricominciare a parlare di economia secondo la sua origine, che era ed è l’etica.
Oggi si fa un gran parlare di economia, in genere in appoggio al liberismo che appare trionfante dopo la fine (definita caduta) di quello che tutti chiamavano comunismo, ma che era capitalismo di Stato.
Ora, proprio per questo, mi sembra il caso di ricominciare a parlare di economia secondo la sua origine, che era (ed è) ben salda non nella filosofia, madre di tutte le scienze, ma nell’etica. In effetti, per chi vive ora, ciò appare inverosimile perché si ritiene che etica ed economia siano in un contrasto come e più di scienza e fede.
In entrambi gli scontri le due parti, a guardar bene, appaiono compatibili e possono essere chiamati l’uno in aiuto dell’altro. Infatti la scienza cerca, senza avere pregiudizio alcuno, di spiegare quanto esiste nella natura e la fede tende alle stesse risposte. Inoltre, come il fedele accetta per vere e valide alcuni (solo alcuni) fatti senza risposta razionale, così il tifoso della scienza (e talvolta anche la scienza) di fronte a fatti inspiegabili con le nozioni conosciute ricorre all’atteggiamento fideistico: dice che la scienza non è “ancora” in grado di spiegarle, ma che prima o poi lo farà. La differenza è solo nel fatto che il primo ha “fede” in un preteso essere superiore onnipotente ed onnisciente, mentre il secondo ha fede nell’uomo e nelle sue pretese capacità. Considerate ugualmente illimitate. Non c’è quindi contrasto reale, ma al massimo metodologico.
Così tra economia ed etica, il contrasto non è vero, ma creato per convenienza. O per incomprensione e vacuità. L‘economia, la scienza della ricchezza come dicono molti, la scienza della miseria come dicono alcuni, la scienza delle catastrofi come l’hanno fatta diventare Friedman e i suoi seguaci è e deve essere considerata e sviluppata partendo, come per il diritto, da presupposti generali, da principi etici che ne delimitano ed indicano fini e mezzi leciti.
Il liberismo dichiara suoi padri Adam Smith, Stuart Mill e Vilfredo Pareto solo che tutti questi uomini non si allontanavano, non rinnegavano i principi etici posti a base della società e della moralità umana.
Adam Smith sosteneva che lo scopo dello Stato deve essere il benessere dei cittadini, tutti i cittadini, ogni tipo di benessere, Vilfredo Pareto ovviamente per motivi etici pretendeva che si fosse, alla linea di partenza, tutti allo stesso livello, Stuart Mill pur sostenendo che la libertà dell’individuo non doveva essere limitata da nessuno Stato nelle forze della produzione, diceva anche che nella distribuzione lo Stato poteva e doveva farlo quando il comportamento del singolo portava danno ad altri. Cio perchè ogni trasferimento o produzione di ricchezza a favore di qualcuno comporta danno o sofferenza più o meno lievi per qualcun altro. Vero è che potrebbe essere che la sofferenza prodotta sia inferiore alla felicità creata (e questo sanerebbe la situazione), ma è anche vero che nessuno finora è riuscito a misurare l’una o l’altra delle due cose e che, quindi, questa ipotesi rimane solo teorica. Timbérgen, negli anni ’50 (se ben ricordo), sollevava il problema della felicità media, calcolo che però è ancora più impraticabile. Quanto a Marx poi l’intera sua teoria economica era impregnata di fortissimi principi etici. Si condividano o no.
Non è quindi nei padri dell'economia o del liberismo che possiamo trovare la pretesa antitesi tra etica ed economia.
Ma, tornando al problema di base, è poi avvenuto che, con il progredire degli studi si è passati sempre più ad un approccio all’economia del tipo che Amartya Sen, Nobel per l’economia, chiama “ingegneristico”. Ovvero fatto di calcoli e analisi matematiche processo ritenuto più equilibrato e scientifico, più asettico. Questo ha facilitato la spinta agli economisti e, quel che è peggio, ai gestori reali dell’economia, lontano dalle origini etiche della stessa o, meglio, dal quadro etico in cui era stata formulata da sempre.
Non in un altro quadro etico, ma al di fuori di qualsiasi piano etico, passo poi concluso con il neoliberismo e gli studi, che sarebbe meglio chiamare affermazioni, di Milton Friedman.
In questa nuova ottica si è arrivati a concludere in assoluto che l’unica molla di ogni comportamento economico è lo “interesse personale” e che un comportamento non basato su di esso è “irrazionale” e quindi sbagliato.
Da notare che l’affermazione dell’assolutismo del tornaconto personale è basata sul nulla e che l'esistenza di milioni di persone nel volontariato che si sacrificano nell’interesse altrui, l’esistenza di santi e patrioti morti per il bene collettivo e quello di miliardi di genitori che non seguono l’interesse personale, ma quello dei figli non scuote le certezze fideistiche dei fautori dell’economia senza etica, dell’economia basata sul così detto homo oeconomicus.
"Homo" nato da due secoli, ma che con la darwineconomia ha preso potere e vigore.
Vorrei far rilevare che, se così fosse l'“homo”, non avremmo uomini, ma ominidi perché nella visione cieca dell’homo non potrebbe entrare neppure l’idea di una qualsiasi forma di Stato, che, qualunque sia la forma assunta, secondo i principi etici che lo guidano, ha come scopo provvedere ai bisogni dei cittadini con mezzi forniti in prevalenza dai cittadini.
Inoltre se l’uomo avesse una pallida somiglianza con l'“homo”, tutti i gestori dello Stato provvederebbero solo a sé stessi. Sì, in alcune epoche in certe società, come nella nostra attuale, sembra sia così, ma in realtà non lo è mai. Mai completamente. Forse è anche per questo che i rappresentanti del pensiero economico della scuola austriaca anarco-liberista (estremisti friedmaniaci) chiedono la abolizione dello Stato ritenuto inutile nei loro modelli ed è, forse, per questo che i modelli degli economisti, riportati nella realtà, non funzionano mai.