E’ possibile sradicare il fenomeno mafioso dall’Italia?

par Sergio Nazzaro
martedì 14 luglio 2009

Guida Editori ha appena pubblicato un testo di ricerca e di analisi sul fenomeno mafioso intitolato “Mafie, politica, pubblica amministrazione” di Ugo Di Girolamo. Il testo indaga con grande rigore scientifico e con spirito innovativo il fenomeno, ponendo sotto i riflettori il ruolo della politica nella non sconfitta del fenomeno della criminalità organizzata in Italia.


 
La prima domanda la voglio rubare dalla copertina del libro: è possibile sradicare il fenomeno mafioso dall’Italia?
“Si è possibile. Al di la di quanto affermava Falcone sulla natura sociale del fenomeno che come tale prima o poi avrebbe avuto una fine, l’Italia è l’unico paese dell’Europa occidentale che ha questo problema. Non si vede perché essa non debba omologarsi al resto dell’Europa occidentale. Ma il fatto che nel libro indico una possibile soluzione non significa però che essa sia politicamente attuale. Il quadro politico nazionale è tale che sembra andare nella direzione opposta a quanto auspicato nel testo”.
 
E’ molto interessante l’approccio di considerare le diverse nature della criminalità organizzata (Mafia, Camorra, Ndrangheta etc.) come un unico corpo criminale. Perché questa scelta e quanto è valida questa ipotesi di lavoro?
“L’approccio unitario, nello studio delle principali organizzazioni criminali di tipo mafioso, fu auspicato da Nicola Tranfaglia nel lontano 1990, ma è stato utilizzato solo da Enzo Ciconte nel 2008 e da me. Ritengo tale metodo indispensabile ai fini della individuazione dell’essenza del fenomeno mafioso, che è la stessa per tutte e quattro le organizzazioni maggiori e che consiste nella penetrazione negli apparati dello Stato, nell’intreccio tra gruppi criminali e settori della politica e della Pubblica Amministrazione. Se non si parte da ciò diventa impossibile, anche sul piano teorico, elaborare una strategia di sradicamento delle mafie dalla vita sociale, economica e politica dell’Italia”.
 
Quanto sono compromettenti i rapporti tra criminalità organizzata e politica, e quali sono soluzioni sono adottabili per la risoluzione di questo intreccio?
“Il problema del rapporto tra criminalità e politica non si pone nei termini di una quantità più o meno grande di politici direttamente compromessi con i vari clan, che pure ci sono ed esercitano il loro nefasto ruolo, ma va visto in termini di responsabilità storica dell’intero ceto politico italiano. Se è vero che le tre mafie storiche sono il frutto di un peculiare processo di eversione della feudalità e dell’affermazione della modernità borghese nell’Italia meridionale, nonché del singolare processo di unità nazionale, allora - oggi nel 2009 - potremmo celebrare il bicentenario di cosa nostra, ’ndrangheta e camorra. Uno specifico fenomeno criminale che parte dal regime borbonico, giunge alla maturità in quello liberale, attraversa quello fascista e continua a vivere in quello repubblicano, non può non chiamare in causa il ceto politico italiano in tutte le sue sfumature, dall’origine a oggi. È nella spiegazione di questo arcano che sta la soluzione della questione mafiosa. Arcano che provo a chiarire nel libro”.
 
Dal tuo punto di vista, in cosa difetta attualmente lo studio e la comunicazione sul problema Mafia in Italia, quali le lacune a cui si dovrebbe mettere immediatamente riparo?
“Fin dall’origine il fenomeno mafioso è stato artatamente circondato da grande confusione. A volte si è fatta confusione anche in buona fede, come ad esempio nel caso della scuola sociologica degli anni ’70, che negava l’esistenza di clan organizzati e tra loro strutturalmente collegati perfino in Sicilia. Dai tempi di Falcone e di Tommaso Buscetta molti passi avanti sono stati fatti e molte verità, già acquisite in epoca liberale, sono state nuovamente riscoperte. Tuttavia, ancora grande è la confusione intorno alla questione mafiosa. Nel libro indico tre errori molto diffusi che a mio avviso svolgono un ruolo deleterio, di ostacolo ad una diffusa consapevolezza della pericolosità delle organizzazioni criminali di tipo mafioso”.
 
Quali sono questi tre errori?
Il primo riguarda la presunzione - tutta settentrionale – che il problema mafioso riguardi il Mezzogiorno d’Italia. Il secondo consiste nella confusione tra capitalismo e mafie. Pino Arlacchi, con la pubblicazione de “La mafia imprenditrice” nel 1983, diede il via a questa confusione, perpetuata e ingigantita dalla teoria della “borghesia mafiosa” di Umberto Santino. Il terzo errore sta nell’uso indifferenziato di criminalità organizzata e criminalità mafiosa, quasi fossero sinonimi.
 
 
 
E che conseguenze hanno prodotto? 
“Le conseguenze di questi tre errori sono: a) la questione mafiosa è un problema dei meridionali, se la risolvessero loro e il governo provvedesse a reprimere con forza la criminalità del Sud; b) se mafie e capitalismo sono due aspetti dello stesso problema: il prelievo di plusvalore dai produttori, allora se ne riparlerà quando il capitalismo sarà sostituito dal socialismo. Inoltre, non si percepisce più la pericolosa devastazione del sistema produttivo operata dai clan; C) Infine, la criminalità organizzata esiste ovunque nel mondo e vi è sempre stata, conclusione: dobbiamo imparare a convivere con la criminalità organizzata mafiosa.
E’ grazie anche a questi diffusi errori che le mafie continuano ad esistere, ma è soprattutto il clientelismo, la corruzione e il voto di scambio che consentono ai clan di penetrare nello Stato e riprodursi. Se non si affronta il nodo del modo di essere (ab origine) del ceto politico italiano la questione mafiosa non potrà mai essere risolta. Un nuovo movimento antimafia dovrebbe porre al centro della sua azione questa questione politica”.
 
 
Ugo Di Girolamo, classe 1947 è laureato in scienze politiche alla Federico II di Napoli, per molti anni ha svolto attività politica a Caserta ed è stato consigliere comunale a Mondragone, dove ha potuto osservare “dal vivo” il fenomeno mafioso. Ha recentemente pubblicato un testo fortemente innovativo sul fenomeno mafioso in Italia.
 
 


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