Durban 2, assenze giustificate?

par Gabriele Cappelletti
lunedì 27 aprile 2009

La conferenza internazionale sul razzismo conclusasi qualche giorno fa a Ginevra ha evidenziato una preoccupante divisione tra alcune grandi democrazie "occidentali" e il resto della comunità internazionale. Come spesso accade, i mezzi d’informazione hanno dato una lettura unilaterale dell’evento, stigmatizzando con veemenza l’intervento di Mahmud Ahmadinejad e giudicando legittima (ancorché non unanimamente condivisibile) la decisione di chi non voluto partecipare ai lavori.
Mi permetto di fornire una lettura alternativa dei fatti.

Posso solo immaginare quanto sia stato traumatico per coloro che credono nella retorica moralista dei governi occidentali, l’apprendere che le grandi democrazie paladine della “nostra civiltà” hanno disertato il summit “Durban 2” contro il razzismo.

E, se io stesso mi annoverassi in questa schiera, quel che mi sarebbe ancora più difficile da digerire sarebbe sicuramente il constatare che Stati Uniti, Germania, Italia e gli altri non avevano nessun ragionevole motivo per farlo e, anzi, credo che la decisione di defezionare il summit abbia sortito l’effetto contrario rispetto a quelli che erano i loro obiettivi.

Il boicottaggio viene infatti giustificato in funzione di una supposta strumentalizzazione della conferenza da parte di alcuni “paesi estremisti” (in particolare Iran, Libia e Cuba), i quali ne avrebbero fatto un palco per accusare Israele di essere uno stato razzista.

Le domande che una persona dotata di un minimo di capacità analitiche dovrebbe porsi di fronte a queste argomentazioni sono essenzialmente tre:
L’Iran e la Libia hanno effettivamente il potere di condizionare la conferenza?
Quanto affermato da Ahmadinejad corrisponde a verità o è una pura menzogna?
E infine: anche qualora il potere di questi “stati estremisti” fosse così determinante, e se le affermazioni di Ahmadinejad si rivelassero null’altro che frottole, sarebbe ancora corretto boicottare la conferenza ONU?

La risposta alla prima domanda è sfumata. È infatti vero che nella commissione incaricata di stendere le bozze dell’ordine del giorno e della dichiarazione finale, i paesi “occidentali” erano in schiacciante minoranza, ma questa è solo la logica trasposizione numerica del fatto che (udite udite, spesso tendiamo a dimenticarlo) l’ “occidente” non rappresenta che una parte molto marginale della multiforme realtà mondiale. E mentre dal punto di vista militare ed economico l’Europa e gli USA possono spadroneggiare sui paesi “sottosviluppati”, in una sede anche solo relativamente democratica come quella delle Nazioni Unite i rapporti di forza sono decisamente diversi.

Ed è proprio con metodo democratico che sono stati eletti il presidente e il vicepresidente della commissione preparatoria: la libica Najat Al-Hajjaji e il cubano Resfel Pino Álvarez (per la lista completa dei membri del comitato preparatorio—> http://www.un.org/french/durbanrevi... ).
Ma non bisogna dimenticare che le bozze elaborate dal comitato vanno poi discusse e riformulate nel corso della Conferenza plenaria. E in questa sede non c’è scampo: vige il principio della democrazia più stretta. Uno stato, un voto. E anche laddove di volesse insinuare che il voto dei singoli stati non sia reso in maniera indipendente, sarebbe semplicemente ridicolo anche solo pensare che, con tutti gli strumenti di influenza economica, politica e (in extremis) anche militare, gli Stati Uniti, la Germania e l’Italia non riescano a reggere il confronto con Iran, Libia e Cuba quando si tratta di fare pressioni su stati terzi per condizionarne il voto. In casi come questo, quando le grandi democrazie accusano le organizzazioni internazionali democratiche di essere schiave degli estremismi, le persone che sanno leggere attraverso le demagogie “occidentali” capiscono che il messaggio si riduce semplicemente a “Non state dicendo quel che noi vorremmo diceste”.

In definitiva, credo che l’attribuire ai “paesi estremisti” un potere tale da condizionare in maniera irrimediabile l’esito della conferenza sia una falsità manifesta. È semmai vero che tale esito sarà pesantemente condizionato dalla maggioranza degli Stati mondiali (il che dovrebbe essere ritenuto normale in un sistema democratico), e che esso sarà con ogni probabilità contrario agli interessi degli stati europei e degli USA.

Per quanto riguarda la veridicità delle dichiarazioni del presidente Iraniano, non credo sia necessario dilungarmi eccessivamente, anche perché farlo significherebbe aprire una discussione troppo ampia per i propositi che questo breve testo si prefigge. Invito quindi chiunque volesse formarsi un’idea in merito a consultare qualcuna delle numerosissime opere sull’argomento (molto esauriente e istruttivo a questo proposito è il libro “Terrore Infinito” di Noam Chomsky). Personalmente credo sia fuori da ogni dubbio che l’occupazione Israeliana dei territori palestinesi abbia una fortissima componente razzista, e che all’interno dello stato israeliano viga un regime di apartheid politica, sociale ed economica finalizzato alla subordinazione dei palestinesi agli ebrei.


Da notare è che questo giudizio sullo stato delle cose in Palestina non è una mia personale elucubrazione, ma sono numerosissime le segnalazioni di abusi e violenze nei confronti dei palestinesi che risiedono in Israele, come testimoniano le dichiarazioni di Richard Falk (il relatore ONU per i diritti umani nei territori palestinesi), secondo il quale la politica israeliana verso gli arabi sarebbe “molto simile a un crimine contro l’umanità”. L’unica questione discutibile sarebbe a questo punto se definire queste continue malversazioni come “razzismo” o come semplici “crimini contro l’umanità”.

E anche se le conferenze internazionali non servono prettamente a questo proposito (per questo ci sono i tribunali internazionali), credo non sia oltremodo fuori luogo denunciare delle efferatezze dall’odore razzista nel corso di un summit sul razzismo.

A causa di questa scelta di Ahmadnejad, si è tentato di discreditarlo in tutti i modi, fino a tacciare di razzismo il suo discorso del 20 aprile (evidentemente senza ascoltarlo, perché solo un ignorante potrebbe equiparare la parola “sionista” alla parola “ebreo”, il che sarebbe come utilizzare “nazista” e “tedesco” come termini intercambiabili), oppure definendolo, come ha fatto Israele, “il nuovo Hitler” (ma che reazioni di indignazione avremmo avuto in “Occidente” se Ahmadinejad avesse dato del “nuovo Saddam” a Olmert?).

Beninteso, non sto dipingendo Ahmadinejad come un campione della giustizia, solo contro il mondo a difendere i diritti dei palestinesi (i quali, per inciso, attraverso il loro portavoce alla conferenza si sono detti non troppo favorevoli al tono utilizzato dal presidente iraniano): è evidente che la sua è una strategia volta a conseguire consensi elettorali e appoggi politici presso alcuni paesi arabi. Semplicemente, non trovo corretto stigmatizzare a oltranza questi secondi fini, dato che ogni governo (in primis quelli “occidentali”, che si trovano a fare i conti con un sistema democratico) adatta sistematicamente la propria azione in campo internazionale in funzione della ricerca di consenso interno. Non apprezzo Ahmadinejad, che per quanto possa a volte sostenere delle posizioni condivisibili rimane il presidente di un paese teocratico, oppressivo e violento, del tutto incompatibile con i valori che attribuirei alla mia soietà ideale. Ma perché tanto impeto nello stigmatizzare la doppiezza della politica solo quando si parla del presidente di un paese islamico?

E torno così all’ultima domanda, e cioè se la decisione dei governi che hanno disertato il summit sia giustificabile.

In questo caso la mia opinione è netta: dal punto di vista della coerenza e della correttezza questa mossa è stata inqualificabile. E il dato più inquietante è che nessun organo di stampa abbia condannato con ferma onestà questa indecorosa scelta, dipingendola per quello che irrimediabilmente è: l’ennesima dimostrazione che alcuni tra i grandi Stati “occidentali” utilizzano la retorica della democrazia, della libertà di parola, della diplomazia multilaterale e del confronto solo ed esclusivamente quando fa loro comodo.

Il punto è che i governi in questione hanno boicottato questa conferenza (organizzata, vale la pensa ricordarlo, non da una qualsiasi fondazione o da un paese integralista, bensì dall’Organizzazione delle Nazioni Unite) per due semplicissimi motivi: il primo è che gli Stati Uniti e parte dell’Europa non vogliono nemmeno sentir parlare di Israele come di uno stato terrorista e razzista, il secondo è che questi stessi paesi sono pronti ad accettare il confronto nelle istituzioni internazionali solo ed esclusivamente quando hanno la matematica certezza di veder trionfare le loro posizioni.

Chi si dichiara paladino della democrazia dovrebbe accettare la possibilità di essere messo in minoranza, come dovrebbe anche aver interiorizzato i principi base del dialogo e del confronto: se tu dici qualcosa che non condivido, io farò il possibile per confutarlo. È questa l’essenza dei principi sui quali si fonda la “Civiltà Occidentale”, per la quale gli Stati Uniti e l’Europa hanno combattuto decine di guerre. Salvo poi trovarsi più che pronti a sacrificarli sull’altare della realpolitik.

Rifuggire il confronto insinua il dubbio che non si sia in grado di difendere le proprie opinioni.

Tentare di delegittimare una conferenza internazionale boicottandola fomenta anche il sospetto che il proprio arroccarsi sia in cattiva fede.
E in entrambi i casi si tratta di comportamenti indegni per una democrazia che si vorrebbe moderna.


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