Dove sono è finita la sinistra verde? E’ il prezzo da pagare

par Pietro Orsatti
lunedì 6 settembre 2010

Lo sapevamo tutti che c’era un prezzo da pagare. Forse non ci aspettavamo che fosse così alto. Gli errori che come partiti e movimenti della sinistra abbiamo messo in fila negli ultimi anni sono stati enormi, a volte perfino incomprensibili. Occasioni perse ripetutamente nel corso di almeno vent’anni. Frutto di ubriacature collettive per i pochi e parziali successi ottenuti. A partire dai primi anni ’80. Prendiamo ad esempio la storia di quell’area cosiddetta “verde”. Una storia che, chiariamolo subito, non è esclusiva prerogativa dei “verdi” in quanto partito. Il movimento era ben più ampio della rappresentanza elettorale del Sole che ride. Ma ha pagato il prezzo dell’incapacità di quella forza politica di crescere e diventare altro. Qualcuno si ricorda ancora dello slogan “ecologia della politica”? Uno slogan che raccontava un modo diverso di farla questa benedetta politica. Fu superato, accantonato, dagli stessi che lo coniarono alla vigilia della tempesta di Mani Pulite. Andò così, e ancora in molti non hanno capito perché. Quel movimento in meno di un decennio si è bastato. Poteva fare la differenza, cambiare le cose, e invece si è disperso. Politica politicante e micro giochi di potere e un immenso patrimonio di idee e speranze si è diluito nella narrazione quotidiana della bassa politica. Quando nella percezione del pubblico e dei media non si fa più differenza fra un Mastella e un Pecoraro la differenza dov’è?

Meno di due mesi fa ho seguito una riunione a cui partecipavano molti dei protagonisti di quella stagione (e per fortuna qualche giovane che fa ben sperare). Dopo alcuni interventi introduttivi (di Massimo Scalia e Rita Borsellino in particolare), Gianni Mattioli ha fatto cadere come una pietra nella sala una frase che è stato impossibile ignorare poi. Una frase che suonava più o meno così: “Per anni abbiamo detto che le cose potevano cambiare, forse ora dovremmo riuscire a dire come”. Si, caro Gianni, come.

È su quel come, che non siamo mai riusciti davvero a spiegare, che ci siamo persi. È su quella ricerca che abbiamo rimosso dal nostro percorso collettivo e personale che si è dissolta la nostra esperienza. Che per un breve lasso di tempo non è stata un bluff e tantomeno un esercizio di stile.

Ripartiamo da quel “come” che abbiamo scordato per strada. Riguardiamo la nostra storia, queste tre generazioni di idee che ora stancamente cercano di ridarsi voce e senso. Siamo stati schiacciati, chi più e chi meno, dalla bassa cucina della politica dei partiti. Molti dei quali assolutamente residuali, come per molti anni lo sono stati proprio i Verdi. Che per dieci anni sono sopravvissuti (neanche vissuti) di rendita per quello che eravamo stati e sui processi che avevamo avviato.

In questo momento storico ha davvero poco senso parlare di nomi, sigle, numeri e alleanze. Se dobbiamo capire davvero cosa abbiamo ancora da dare, sempre che ci sia ancora richiesto, dobbiamo partire da quello che è stato, da tutti gli errori, e sono un’infinità, che abbiamo messo in fila da quel fatidico referendum sul nucleare che abbiamo vinto per poi perdere nei fatti, collettivamente e personalmente, davanti agli italiani.

Abbiamo un grande prezzo da pagare, un debito con noi stessi che dobbiamo saldare. Siamo stati percepiti come conservatori, come residui del movimentismo degli anni Settanta, come tattici di basso livello, come individui con poche idee e ancor meno coraggio. Siamo stati considerati, dalla storia e dagli italiani, come “dei bravi ragazzi promettenti ma che continuano a non impegnarsi abbastanza”. Adesso non lo siamo neanche più, ragazzi intendo.

Io la mia storia la rivendico, nonostante sia stata dura, in gran parte politicamente fallimentare. Addirittura drammatica in certe fasi. La rivendico perché continuo a pensare che le idee di quel movimento, le energie che mettemmo insieme allora, siano ancora latenti e inespresse perfino nella società di oggi. Ma non sapevamo “il come”. Non riuscivamo neppure a intravvedere come si stesse trasformando quella società che poi siamo riusciti appena a immaginare. Siamo stati superati dalla storia e dagli eventi. Siamo stati superati da noi stessi. Ma alla fine siamo rimasti quelli che eravamo allora, casomai fuori dai giochi e dalle cosiddette “sedi autorevoli di dibattito”. Ma ancora vivi. E da qui, da questo sorpasso, che dobbiamo ripartire. Con coraggio. Non come quei nostri tanti e comuni amici, uno fra tutti Ermete Realacci, che da un decennio (magari fosse così poco tempo) è l’eterno candidato che non si candida, l’eterno ago della bilancia di una bilancia truccata. Uno di noi, fra parentesi, che poteva davvero fare la differenza solo se avesse trovato il coraggio di mettersi in gioco e di andare alla conta e non vivacchiare della rendita del proprio curriculum. Trasformato, nei fatti, in un comodo schermo ecologista per un partito (il Pd di oggi) che è passato direttamente dalla contraddizione industrialista/operaista a quella finanziaria senza passare dal via.

Bene, ora la crisi del berlusconismo sta arrivando a sintesi. E il crollo (che sia stato ieri o nel 2013) di Berlusconi e della sua pseudo cultura sarà comunque irreversibile. Perché socialmente, economicamente e ecologicamente insostenibile. Questa è forse l’ultima occasione che ci si presenterà, se ne sapremo approfittare, per dare un contributo alla vita non solo politica di questo Paese. Senza candidati e senza candidarsi. Un contributo di idee e di esperienze singole e collettive che, anche se ripetutamente sconfitte, potrebbero innescare qualche cortocircuito in questo monolite mediatico che è diventato la politica italiana.

Ripartendo da quello che eravamo e che continuiamo a essere. Dai nostri errori e dai nostri successi. Accettando di confrontarci anche con durezza con chi sceglieremo come compagni di viaggio.


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