Dopo l’attacco: l’imprevedibile e il prevedibile in Medio Oriente

par Fabio Della Pergola
martedì 7 gennaio 2020

L’idea che Donald Trump sia un improvvisatore che agisce d’impulso, senza ascoltare nessuno, sparando tweet a raffica come un Rambo da avanspettacolo, non è poi del tutto convincente.

Forse lo era, all’inizio del suo mandato, e per molti sicuramente ancora lo è, ma alla fine, se si osservano un po’ più da vicino le sue mosse in questi tre anni di mandato bisogna ammettere che non è (solo) quel "picchiatello" con uno strano riportino giallo sulla testa che il sarcasmo di parte dipinge(va).

In sintesi l’economia statunitense va meglio che in passato, le sue possibilità di rielezione non sono affatto tramontate e l’impeachment ha ben poche possibilità di passare al Senato (ed è probabile che ai democratici tornerà indietro come un boomerang) perché il partito repubblicano non si è affatto spaccato come si poteva pensare dopo la sua elezione.

In politica estera, dove le mosse di Trump sono più evidenti per il pubblico medio non americano, c’è stato ben poco, finora, di aggressivo (nei fatti) a fronte di tante aggressioni (a parole).

Pur fra mille provocazioni verbali, come è nel suo stile, non ha mai tirato la corda oltre il lecito nei confronti di Cina o Corea del Nord. E se indubbiamente ha irritato il mondo musulmano spostando l’ambasciata USA in Israele a Gerusalemme (Ovest) e dichiarando che la città era la capitale di Israele – con grande gaudio di Netanyahu e il furore dei filopalestinesi – non ha però aggiunto che fosse, per lui, una capitale “indivisibile” come ha cercato di rivendersi la propaganda della destra ebraica, israeliana e non. Simbolicamente un gesto significativo, ma a grande fumo ha corrisposto tutto sommato poco arrosto.

Inoltre aveva a suo tempo dato risposte militari estremamente moderate, sparacchiando qualche missile su edifici abbandonati dell'esercito siriano, dopo aver cortesemente preavvertito i proprietari del bombardamento in arrivo, a seguito dell’uso di gas di cui essi erano ritenuti colpevoli.

Se è vero che non ha contrastato il presidente turco Erdogan, preferendo lasciare i curdi siriani al loro destino (cioè a riavvicinarsi volenti o nolenti al “loro” presidente Assad), è anche vero che così facendo ha evitato di aprire un contenzioso sul campo con un faccia a faccia ravvicinato, potenzialmente catastrofico, tra marines e truppe turche. E chissà che l'iniziativa di Erdogan in Libia, anche contro i suoi stessi alleati (in Siria) russi, non abbia avuto il tacito consenso della Casa Bianca.

Ha perfino lasciato correre l’abbattimento di un drone USA da parte degli iraniani, richiamando alla base i suoi caccia dopo che aveva già dato luce verde a una ritorsione aerea contro il paese degli ayatollah. E non ha battuto ciglio dopo gli attacchi contro le petroliere in transito nello stretto di Hormuz da parte di aggressori non identificati, ma da molti considerati, di nuovo, iraniani.

Sarebbero state ottime occasioni per alzare il livello di scontro senza passare per uno squilibrato e colpevole aggressore.

È, in altre parole, un presidente USA un po’ anomalo, sbruffone verbalmente quando fa il duro, ma non poi così manesco nella realtà; difficile da inquadrare – tanto più in una situazione così complicata come questa – e ancor più da incasellare in una definizione netta. L’unica etichetta che gli è stata appiccicata, e che risponde a qualche verità di fatto, è di essere imprevedibile.

Fino a ieri.

Con l’uccisione del generale Qasim Sulaymani “l’America ristabilisce chi comanda in medio oriente”, come titolava ieri un interessante articolo di Daniele Raineri su Il Foglio

E “ristabilire” è verbo che si accompagna bene al contrario di “imprevedibile”.

Era cioè prevedibile che gli Stati Uniti, prima o poi, avrebbero "ristabilito chi comanda in Medio Oriente", visto l’accumularsi delle operazioni ostili contro i suoi alleati (a loro volta non certo delle innocenti pecorelle) pianificate dalla mente del generale iraniano, nell’area più calda e cruciale del pianeta, destabilizzata ormai da tempo immemore (e con grandissima responsabilità americana).

L'ipotesi che Trump abbia ordinato di uccidere il generale dei Pasdaran proprio per salvarsi dall'impeachment sembra essere una delle solite semplificazioni ricorrenti piuttosto che qualcosa da prendere sul serio. Anche l'idea che abbia enormemente alzato lo scontro con l'Iran proprio nell'anno delle elezioni americane per usare il conflitto a suo vantaggio sembra un'ipotesi fragile, benché non del tutto peregrina, se solo si pensa che da qui a novembre c'è abbastanza tempo perché tornino a casa molte, troppe bare avvolte nella bandiera a stelle e strisce. Tutt'altro che un vantaggio per una corsa presidenziale già difficile.

Quello che si può invece evidenziare è che una linea rossa i presidenti americani l’hanno sempre tracciata nel deserto sul confine dell’Arabia Saudita. L’aveva fatto Bush padre quando Saddam Hussein aveva provato a fare il bullo invadendo il Kuwait e l’ha fatto Trump quando Sulaymani ha autorizzato (è più che lecito supporlo) il lancio di missili su pozzi di petrolio e raffinerie saudite, dimezzando la capacità produttiva del regno.

Quella è roba che, evidentemente, non si può toccare.

È vero che gli USA sono ormai autonomi dal punto di vista energetico, ma evidentemente il controllo del petrolio, se non altro per motivi strategici (la Cina ne è affamata, così come il resto del mondo), è imprescindibile.

Forse allora non è così strano se un imprevedibile presidente americano neo-isolazionista, finora restìo nonostante tutto ad azioni di forza e intenzionato davvero a portare a casa i suoi soldati sparsi per mezzo mondo (cosa che aveva cominciato a fare) torna a essere così prevedibile e decida, come tutti i suoi predecessori, che quando una linea rossa viene superata la reazione a stelle e strisce – a tempo debito e apprestate tutte le contromisure in previsione di reazioni – deve essere sempre la stessa: far capire chi comanda a suon di bombe. Con tutte le conseguenze che si possono solo immaginare e che oggi fanno tremare i polsi al mondo.

Che sia giusto oppure no è, ovviamente, un altro paio di maniche.

In altre parole quello che si sta osservando in Medio Oriente non è lo scontro fra i buoni cowboy e i cattivi indiani – cioè dei "portatori di civiltà" contro i "selvaggi" – di tante pellicole degli anni Cinquanta, ma non è nemmeno la versione aggiornata di Soldato blu, il film che descrivendo l'inutile e cruenta strage di Sand Creek sancì l'inversione di tendenza nelle simpatie dei giovani dei Settanta a favore dei popoli più deboli contro quelli più potenti (e che, per questo, determinò l'avversione di massa alla guerra del Vietnam). Nulla di quello che sembra sostenere tanta parte del terzomondismo occidentale (che comprende, sia chiaro, anche l'estrema destra di casa nostra: da Casa Pound a Forza Nuova, schierate da tempo sul fronte filoiraniano).

Se l'ampia condanna internazionale di Trump per un gesto dalle conseguenze imponderabili appare comprensibile, meno comprensibile è la santificazione in corso di Sulaymani, un uomo che ha avuto enormi responsabilità personali nel bagno di sangue mediorientale. Uno che, secondo Thomas Friedman, editorialista e mediorientalista del New York Times, «ha lanciato “un aggressivo progetto imperiale regionale” che ha dato all’Iran e ai suoi alleati il controllo del potere in Libano, Siria, Iraq e Yemen, ma ha suscitato la reazione dei regimi sunniti e di Israele, e ha fornito a Trump la giustificazione per smontare il trattato voluto da Barack Obama».

Quindi lo scontro è in realtà fra due "cattivi" (se proprio si vuole usare una terminologia etica): una potenza imperiale in declino che non rinuncia al suo ruolo autoassegnato di sceriffo del mondo e una media potenza teocratica in ascesa che, grazie a una notevole spregiudicatezza politico-militare, ha costruito un'asse di alleanze che le hanno permesso molte operazioni più o meno "coperte", spesso apertamente provocatorie come i missili sul Regno saudita, in seguito alle quali ha allargato la sua sfera d'influenza dall'Afganistan fino alle sponde del Mediterraneo- E arrivando anche a toccare, molto pericolosamente, i confini di Israele, cosa che rappresentava ormai da anni l'ennesimo potenziale casus belli noto a tutti gli analisti non accecati da ideologia acritica.

Nel tentativo di diventare una potenza regionale incontrastata, ha travolto ogni opposizione esterna quanto interna (centinaia di manifestanti iracheni che chiedono, fra l'altro, la fine delle ingerenze di Teheran nel paese, vittime delle milizie filoiraniane, e tanti morti in Iran durante le proteste contro il carovita e il costoso intervento del paese in Siria), ma trovando – ovviamente – anche tante resistenze politiche e, come si è visto, militari.

Se questo non era poi così imprevedibile, la reazione iraniana che verrà da domani invece lo è, senza ombra di dubbio: quasi certamente un enorme punto interrogativo lacerante per gli stessi ayatollah chiamati a rispondere allo strike americano per salvare la faccia, ma senza esagerare per non finire in una situazione tragicamente senza sbocchi.

Alla fine, tutti perdenti, è ovvio.

 

4 gennaio 2020

Foto: Gage Skidmore/Flickr

 

 

 


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