Di Grillo, dei sindacati, di Confindustria e di una "ammuina" che deve finire

par Daniel di Schuler
lunedì 21 gennaio 2013

Sono lontanissimo da Beppe Grillo e dal suo nazional-socialismo (nessuna provocazione; semplice costatazione della natura della sua linea politica) ma, anche se certo non mi auguro la loro abolizione, sono d’accordo con lui nel dire che i sindacati nazionali siano venuti palesemente meno ai loro doveri.

Qualcosa su cui possono concordare anche tutti i lavoratori italiani, o perlomeno tutti quelli del settore privato, che non dovrebbero far altro che guardare alle proprie buste paga, tra le più basse d'Europa, ed ai propri orari di lavoro, tra i più lunghi del mondo, per capire d'essere vittime di un grande raggiro, operato ai loro danni, e da decenni, con il tacito consenso proprio dei sindacati che ne avrebbero dovuto difendere gli interessi.

Non ho mai giocato a carte ma ricordo d'aver letto da qualche parte questo consiglio, dato da un professionista del poker: "Guardatevi attorno al tavolo. Se non capite chi è il pollo, il pollo siete voi". Al tavolo della nostra economia, dopo che non è più stato possibile alla politica comprare consenso a suon di debito pubblico, i polli sono proprio stati operai ed impiegati, spennati per trovare le risorse per permettere agli evasori di continuare ad evadere, ai pensionati di diventare tali prima che in ogni altro paese ed a tanti dipendenti pubblici, certo non tutti, di continuare con le proprie inveterate abitudini. Di cosa parlo? Di assenteismo, per esempio, che nel pubblico impiego arriva ad essere dieci volte superiore a quello del settore privato, e questo senza citare casi, come quello di certe comunità montane, di uffici in cui raggiunge un tragicomico 85%). 

Supertassati e pagati, in termini reali, sempre di meno, perché si è affidato alla “moderazione salariale”, al “contenimento del costo del lavoro” operato nel più brutale dei modi, il compito di ricucire il divario in termini di competitività, tra il nostro paese e gli altri industrializzati, aperto prima di tutto, che se ne voglia incolpare i politici od i burocrati, da un settore pubblico, incapace di svolgere con dignitosa efficienza anche i compiti più elementari. Un esempio? Per far arrivare in tempi relativamente decenti ai loro clienti italiani, le imprese comasche e varesotte vanno a spedire la propria corrispondenza in Svizzera. Ah, pensate che la Svizzera…? Anch’io, fino a che ho scoperto che quelle triestine fanno la stessa cosa in Slovenia.

E mentre tutto questo avveniva, mentre i dipendenti italiani diventavano sempre più poveri, che diavolo facevano i sindacati? Non li difendevano, evidentemente, o lo facevano male, con le strategie e nei luoghi sbagliati. Sventolavano le proprie bandiere in occasione di qualche raro e peraltro perfettamente inutile sciopero nazionale, erano pressoché assenti nelle aziende, e perlopiù si limitavano a difendere con le unghie con i denti quello che proprio nessuno aveva interesse ad attaccare. Sacri totem come l’articolo diciotto, monumento alla dignità del lavoro (certo non di quello dei milioni di dipendenti delle imprese artigiane e del piccolo commercio) che, in un sondaggio eseguito da Confindustria pochi anni fa, era ritenuto d’ostacolo solo da due imprese su cento.

Ammessa la buona fede, sono evidenti alcuni limiti intrinseci dei sindacati nazionali. Il più grande, quello di pretendere di rappresentare gli interessi di lavoratori che sono, nella pratica, controparte gli uni degli altri. Chi paga, in ultima analisi, lo stipendio al postino inefficiente? Eh… il metalmeccanico. Chi deve cavarsi di tasca i soldi per ripianare i buchi di bilancio di questa o quell’azienda pubblica? L’edile o chi lavora nella chimica o il bancario. Anziché richiedere allo stato maggior efficienza e migliori servizi, i sindacati si sono trasformati così in elementi di conservazione pura e semplice, alla pari di Confindustria, per cui si possono ripetere discorsi del tutto simili e di cui Grillo, giacché era in vena di esagerazioni, avrebbe dovuto chiedere con altrettanta convinzione lo scioglimento.

Non vi pare ridicolo che una sola associazione pretenda di rappresentare industriali che producono esclusivamente in Italia, altri che in Italia hanno solo interessi ormai limitati e, soprattutto, altri ancora che industriali non sono davvero; che sono anzi signori delle bollette e delle tariffe, che solo hanno da guadagnare dal mantenimento di oligopoli e monopoli a tutto discapito dei propri supposti colleghi?

Ovvio che un coacervo d’interessi tanto diversi non abbaia saputo chiedere altro che di pagare sempre meno i propri dipendenti. Qualunque recupero di efficienza del settore statale, pur fondamentale per tanti industriali, avrebbe finito per nuocere ad alcuni, e tra i più grossi, dei suoi iscritti. Un’inerzia perfettamente rappresentata dall’ovazione attribuita ancora pochi anni fa dalla sua assemblea a Silvio Berlusconi, il gran signore della acque limacciose, garante di stabilità (ma di cosa?). Per il resto, tacere su tutto e giocare con i sindacati a quella che è diventata una stucchevole ammuina.

Ammuina per cui è scaduto il tempo, mentre i bassi salari hanno devastato il nostro mercato interno, e la mancanza di servizi, la lentezza della burocrazia e l’inesistenza della ricerca stanno condannando l’Italia al sottosviluppo.

La prima cosa da fare? Tornare ognuno a svolgere il proprio ruolo: i sindacati a difendere gli interessi reali dei lavoratori (decidano poi se di tutti, compresi i giovani e chi lavora nei settori senza alcuna protezione o quasi, o solo dei propri iscritti); Confindustria a far lo stesso con quelli delle imprese italiane. Ruoli contrapposti, che possono, questo sì, prevedere un’azione comune: quella per chiedere allo Stato, facendo meglio il proprio lavoro, di rispettare quello delle imprese e dei loro dipendenti. 


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