Del dentro. E del fuori. Raccontare la Siria
par SiriaLibano
venerdì 5 dicembre 2014
Poteva come tanti
scegliere e partire
invece lui decise di restare
(Modena City Ramblers, I cento passi, 2004)
(di Lorenzo Trombetta, SiriaLibano).
Dove sei? Come vivi dentro? Le parole di una vecchia canzone sembrano appropriate, ma non lo sono.
Alle due domande, pronunciate velocemente e senza pausa, come se fosse un’unica parola, non c’è risposta. La linea telefonica è caduta di nuovo. Lasciando appesa quell’interrogazione per me cruciale da molto tempo.
Io sono fuori. C’è chi è dentro. Quando esce, lo bracco, lo abbraccio, lo interrogo, lo imploro di raccontarmi ogni dettaglio.
Vorrei sezionare la sua memoria, i suoi ricordi, le sue sensazioni, i suoi pensieri. Dove sei stato? Come hai vissuto dentro? Le risposte sono però troppo parziali. Mancano sempre alcuni dettagli fondamentali.
Hai fatto foto? Hai filmato qualche angolo? Dalle immagini escono odori per me antichi. Sensazioni e voci sommersi dal rimpianto di non aver fatto la cosa giusta. Giusta per poter esser io dentro.
Surrogati di verità raccolgo da anni su ciò che avviene dentro. Per quante mani avanti io metta in ogni riga che scrivo, una parte di me si sente in colpa. In colpa con chi legge, con chi ascolta, con chi applaude e con chi annuisce. Chi scuote la testa scuote l’intera mia coscienza. Il coltello si inerpica silenzioso nella piaga. E penso che forse farei meglio a rivolgermi al diavolo pur di entrare. Dentro.
Questi tre anni e mezzo di mattanza siriana sono stati dominati – e lo sono ancora adesso, mentre scrivo – da questa contrapposizione dentro e fuori. In molti sono convinti che chi è dentro sia depositario della Verità. Chi è fuori raccoglie invece le briciole di una verità mediata, e quindi meno pura, spesso distorta.
Il dentro è però molto vasto e composito: ad Aleppo si può raccogliere la Verità in quel quadrato di Siria, ma la verità racimolata da Aleppo su Damasco o su Daraa sarà anche in quel caso imperfetta e parziale.
Il principio del “racconto solo ciò che vedo” è così diventato la religione di molti osservatori e reporter. Se si è a due passi dalla cittadella di Aleppo, non si può esser testimoni e raccontare con fedeltà la Verità di quel che succede a meno di un chilometro a est, a ovest, a nord o a sud.
Per poter mappare le Verità siriane in uno stesso determinato momento temporale, bisognerebbe avere il dono dell’ubiquità. Oppure, bisognerebbe percorrere un viaggio in ogni metro quadrato siriano. Ma i rischi di non terminare questo percorso sarebbero altissimi. E, comunque, le testimonianze sarebbero raccolte in date anche molto distanti fra loro.
E’ un vicolo cieco. E per uscirne mi aggrappo alla potenza e all’importanza delle percezioni. I fatti – le Verità – possono essere raccontati solo da chi ne è stato testimone.
Come il gioco del telefono o come nella catena dei trasmettitori degli ahadith del Profeta Maometto, più sono i relatori del “fatto” e più quest’ultimo si distorce, si diluisce, muta in qualcosa che inevitabilmente è qualcosa di diverso e lontano dal fatto.
La trasformazione può avvenire sia tra il dentro e il dentro (tra Aleppo e Hama, ad esempio, e tra Hama e Homs), sia tra il dentro e il fuori (tra Damasco e Beirut, tra Damasco e Oslo).
Le percezioni possono invece essere raccolte dal di dentro con minori rischi di essere alterate, perché sono di per séoggetti plastici. La materia della percezione ricorda la pasta morbida colorata con cui si gioca da bambini.
Con questa pasta tra le mani si esce dall’oggettivo e si entra nel soggettivo. Un soggettivo che per me è al centro del malessere di esser fuori, e non dentro.
Ogni qual volta ho registrato le percezioni dei siriani che sono usciti, ho a mia volta percepito una distorsione. Dovuta alla distanza geografica e temporale, a un trauma vissuto e raccontato ogni volta in maniera diversa.
In moltissimi casi, le posizioni politiche, e in certi casi ideologiche, che ciascun siriano si è costruito prima del 2011 alimentano queste percezioni.
Le confermano, le rafforzano, le acuiscono, le radicalizzano. Viceversa, in alcuni casi, le percezioni confermano, rafforzano, acuiscono, radicalizzano le posizioni politiche e ideologiche preesistenti.
In altri casi ancora, le violenze scoppiate tre anni e mezzo fa e tutta la scia di conseguenze abbattutesi sugli individui, sulle famiglie, sulle comunità e su un’intera popolazione, hanno disossato convinzioni del passato. Hanno sradicato certezze, hanno ridisegnato i confini invisibili tra chi è con me e chi è contro di me.
Questo è avvenuto anche all’interno di famiglie molto coeve. Che rimangono unite dagli affetti, ma che spesso si presentano divise da percezioni in contrasto fra loro.
Ciascuno modella la pasta colorata come vuole. Ciascuno ha la sua ragione. E la difende con un inattaccabile apparato di aneddoti, di esempi, di storie personali e universali.
Non è più una questione di fatti, di quel che è Veramente successo. E’ una questione di come ciascun siriano vive il proprio presente e il proprio passato. E come immagina il proprio futuro.
Per sopportare il dolore e sperare nel domani. Per andare avanti ogni giorno e, soprattutto, per superare ogni notte. Nonostante la guerra e la lacerazione personale e collettiva.
La costruzione della propria realtà serve da analgesico contro un continuo e penetrante mal di testa. Ciascuno, dentro e fuori, si imbottisce di questi farmaci.
C’è chi nega l’evidenza, c’è chi esagera. C’è chi è fuori di testa. C’è chi alza la voce e urla tutto il tempo. C’è chi rimane in silenzio. C’è chi si dedica agli altri senza voler fare politica. C’è chi fa politica e si dimentica degli altri.
C’è chi è dentro e vuole uscire. C’è chi è fuori e vuole tornare. C’è chi dentro non c’è mai stato. C’è chi ha un pezzo di famiglia dentro. E lui è fuori. C’è chi ha un pezzo di famiglia fuori e lui è dentro.
C’è chi inveisce contro gli stranieri, che sono fuori per definizione, e si rivolge solo ai siriani, che in quanto protagonisti del dentro dovrebbero essere gli unici depositari della Verità. C’è chi maledice i siriani e maledice se stesso.
Qualche giorno fa ero molto fuori. Ero in Italia. Da tempo vivo fuori dalla Siria. Ma sono meno lontano di altri. Beirut, e tutto il Libano, sono da sempre impregnati di Siria. E non solo da quando queste terre sono invase da oltre un milione di siriani in fuga.
Mi trovavo in una città italiana, a cena, con alcuni partecipanti a uno degli incontri sulla Siria. Tra i commensali c’erano dei siriani, da molto tempo fuori. Le loro percezioni mi sembravano molto distanti dalla mia percezione vissuta fuori a Beirut e in Libano.
Solo un giorno prima avevo salutato un mio collega, siriano, che dopo tanti anni di distanza dal suo Paese, avrebbe provato a rientrare. Dentro. Con lui condivido la sete di conoscere come si vive dentro. Cosa succede dentro, e come si percepiscono gli eventi dentro.
Da lui ho imparato in questi anni a rimettere in discussione le percezioni scambiate per Verità. Eravamo entrambi fuori da diversi anni. Lui è rimasto sempre collegato col dentro tramite la sua famiglia.
Eppure, la pensava diversamente dai suoi. Sua sorella, anch’essa a lungo fuori, aveva e ha un’idea degli eventi più simile a quella del padre e della madre rimasti dentro. E’ una famiglia molto unita. Ma nelle percezioni è in parte divisa. Divisa anche tra il dentro e il fuori.
In questi giorni si sono riuniti. Sono tutti, o quasi, dentro. Il mio collega ce l’ha fatta a tornare. Ha varcato un confine che non è solo un controllo rischioso del passaporto.
L’ho immaginato mntre respirava un’aria diversa. Ascoltava voci diverse. Beveva un’acqua diversa. L’acqua e l’aria di chi è dentro. Io sono rimasto fuori e mi sono chiesto a lungo – e ancora me lo chiedo – quanto lui tornerà trasformato, arricchito forse, da questo suo viaggio dentro.
Avrà raccolto delle percezioni difficili da raccogliere quando si è fuori. Per telefono, su Skype, via email, si hanno solo briciole. Avrà visto con i suoi occhi un angolino di Siria.
Avrà le sue Verità, ridotte e parziali, ma comunque potrà parlare, finalmente, come testimone di fatti avvenuti nell’arco di pochi giorni in un preciso luogo geografico della Siria.
Quel che lo renderà ai miei occhi brillante e interessante sarà però il suo viaggio. Il suo poter spostare lo sguardo dal dentro al fuori.
Il suo poter percorrere una distanza tra qui e lì, portando con sé quel carico di aneddoti, di verità soggettive, di sensazioni che fanno parte di chi è pronto a cambiare punto di vista e di osservazione.
Se il mio amico e collega rimanesse dentro, in un dentro molto limitato, diventerebbe parte di quell’esercito di siriani con una propria verità personale in tasca da esibire ai posti di blocco dei critici e degli scettici.
Allo stesso tempo, se dopo questo viaggio per lui così importante, non potesse più tornare dentro e rimanesse fuori, la freschezza di questo viaggio lascerebbe lentamente spazio all’opacità di una percezione alterata dalla distanza, dalla frustrazione e dalla rabbia.
Non so dove lui ora sia. E come lui viva dentro. Ma il suo viaggio dentro – nella sua Siria – e il mio viaggio fuori – nella mia Italia – mi hanno aiutato sciogliere questo nodo del dentro e del fuori. Il mal di testa è ora più sopportabile. La nostalgia per Damasco è invece ancor più struggente.