Debito, che fare?
par Phastidio
giovedì 4 luglio 2024
Nei paesi sviluppati non si arresta la corsa dell'indebitamento, pubblico e privato. Le soluzioni tradizionali, viste in passato, sono vincolate e limitate dalla globalizzazione finanziaria, mentre la politica vende fiabe agli elettori.
Il tema non è nuovo ma continua a ripresentarsi a causa del deterioramento delle condizioni fondamentali: che faranno le economie sviluppate, di fronte a uno stock di debito, pubblico e privato, che non accenna a rallentare la corsa? Quale shock politico e sociale, oltre che finanziario, possiamo attenderci in un futuro che potrebbe non essere così remoto?
Un utile riepilogo delle puntate precedenti lo si trova in questo articolo di Chatham House, istituto indipendente di policy, che prefigurava che nel corso dell’ultimo G7 il tema della gestione del debito non sarebbe stato al centro dei lavori. E così è stato.
Qualche numero: i paesi sviluppati presentano a fine 2023 un rapporto tra debito pubblico e Pil del 111 per cento. Includendo il debito privato di famiglie e imprese, il rapporto supera ormai il 250 per cento.
COSA È ACCADUTO DAL DOPOGUERRA
In prospettiva storica, abbiamo avuto una fase di rapido abbattimento dello stock e dei quozienti di debito dopo la seconda guerra mondiale, per effetto di inflazione superiore al previsto, alta crescita, conseguimento di avanzi primari e repressione finanziaria. Il rapporto di indebitamento pubblico britannico è sceso dal 270 per cento del 1946 al 73 per cento del 1970, toccando poi un minimo storico del 29 per cento nel 1990. Negli Stati Uniti il valore è sceso dal 121 per cento del 1946 al 36 per cento del 1970.
Negli anni Settanta c’è l’inversione di tendenza, con la comparsa di deficit primari, inflazione e rallentamento nella crescita. In questa fase la crescita del Pil nominale si affossa dalla doppia cifra a un intorno del 3 per cento. Altri elementi che contribuiranno all’ulteriore aumento del rapporto d’indebitamento sono la liberalizzazione finanziaria e tassi reali che diventano anche sensibilmente positivi. Da qui i rapporti di debito schizzano al rialzo.
Seguono le grandi crisi del ventunesimo secolo: la crisi finanziaria del 2007-2009 e il Covid, che portano a grandi salvataggi con denaro pubblico e tassi che crollano in territorio negativo, agevolando il servizio del debito ma anche l’ulteriore indebitamento, a leva. Soprattutto, in questa fase si afferma una condizione di asimmetria nell’uso della politica fiscale: i decisori politici sono assai lesti a mettere mano a grandi espansioni fiscali ma, quando la situazione si normalizza e l’emergenza è alle spalle, il consolidamento fiscale non si verifica se non in minima parte.
E ora, cosa ci attende? La situazione è ben delineata: invecchiamento della popolazione, spesa per la difesa, cambiamento climatico e transizione tecnologica. Il tutto avendo in sottofondo il solito rischio di passività contingenti legate a deficit pensionistici non pienamente finanziati.
Che fare, quindi? Secondo l’interpretazione ottimistica, poco di drastico, almeno finché la crescita nominale eccede il costo medio del debito. Cioè sin quando esiste un “effetto palla di neve” positivo. Solo che questo fenomeno sta progressivamente mostrando la corda anche nei paesi che sin qui ne hanno approfittato. In altri termini, c’è il rischio di uno scenario italiano, dove l’effetto snowball è negativo da un ventennio, a parte l’anomalia del rimbalzo post Covid, e tende a gonfiare l’indebitamento in modo spontaneo, costringendo a crescenti avanzi primari che molti paesi non sembrano in grado di conseguire per vincoli politici. In Europa, penso alla Francia; ma l’elefante nella stanza sono gli Stati Uniti.
Quello che differenzia realmente l’epoca attuale, rispetto al passato, è il grado di globalizzazione finanziaria, che aumenta drasticamente il rischio che l’estrema mobilità dei capitali porti a gravi episodi di instabilità finanziaria, anche in paesi che sin qui si ritenevano del tutto immuni da questo rischio.
LEVE CHE SMETTONO DI FUNZIONARE
L’editoriale di Chatham House identifica alcune leve per ridurre i quozienti di indebitamento: consolidamento fiscale (cioè aumento delle tasse), crescita, inflazione, repressione finanziaria e ristrutturazione di debito, cioè default. Il problema è che la compresenza sullo sfondo della globalizzazione finanziaria agisce contro praticamente tutte queste leve.
Ad esempio, la stretta fiscale in un paese rischia di produrre deflussi di capitali, sottratti alla crescita. Il ricorso all’inflazione è inteso come inflazione inattesa, perché quella attesa si incorpora nel premio al rischio, cioè nei rendimenti richiesti dal mercato per sottoscrivere il debito. Ma una inflazione inattesa in grado di erodere significativamente il rapporto di indebitamento dovrebbe essere una fiammata molto rilevante, con conseguenti problemi sociali. Ecco perché viene da sorridere, quando si leggono “analisi” ottimistiche sull’inflazione come male che non necessariamente viene per nuocere ai grandi debitori.
La repressione finanziaria è una categoria molto vasta, che può spingersi all’estremo dei controlli sul movimento dei capitali. L’unica cosa che potrebbe disattivare la globalizzazione finanziaria, ma a prezzo di gravi turbolenze e dissesti. Qualsiasi forma di repressione finanziaria che non limiti i movimenti di capitali (vaste programme) causerà la fuga dei medesimi, e si torna al via. Occorrerà farlo presente agli sprovveduti che pensano basti mettere il debito nelle mani dei propri connazionali, evidentemente ritenuti assai tonti, per risolvere il problema.
Quanto alla ristrutturazione di debito, cioè al default, anche qui i tempi sono tutto. Basta che i mercati percepiscano la non sostenibilità del debito, e l’imminenza di un intervento di ristrutturazione del medesimo, per scatenare l’inferno e auto avverare la profezia.
Le “ricette” delle istituzioni internazionali sono le solite: consolidamento fiscale senza far deragliare la crescita, controllo della spesa pensionistica, riforme dal lato dell’offerta. Tutto molto condivisibile, sulla carta, se solo non vi fossero resistenze politico-elettorali che si rinforzano col passare del tempo, sulle ali di una comunicazione politica che tratta gli elettori come idioti a cui narrare fiabe.
IN OSTAGGIO DI MERCATI FINANZIARI GLOBALIZZATI
Su tutto, a mio giudizio, la dominanza della globalizzazione finanziaria che limita grandemente i gradi di libertà dei singoli paesi ma anche dell’azione collettiva sovranazionale, quella che di solito si esprime nei grandi e declamatori consessi come il G7.
Qualcuno potrebbe obiettare che, a fronte di tale abnorme indebitamento, c’è uno stock di attivi che è cresciuto più che proporzionalmente. Certamente: possiamo anzi ipotizzare che questa “asset inflation” sia esattamente il frutto di politiche monetarie vieppiù espansive, adottate per evitare la deflazione di debito che lo scoppio della bolla porta con sé. Quindi potremmo, anche per giustizia distributiva, ipotizzare una compensazione tra debito e ricchezza. Lo sentite, anche qui, l’inconfondibile refrain italiano?
Il mondo sviluppato si sta inesorabilmente italianizzando, si direbbe. Debito in crescita, crescita in rallentamento per una molteplicità di motivi. Il servizio del debito si è impennato causa inflazione, e ora siamo alla resa dei conti.
Non esistono soluzioni semplici, quindi. La volontà prevalente degli elettori di difendere la propria posizione patrimoniale e reddituale potrebbe produrre esecutivi e parlamenti che legiferano in senso di taglio ulteriore di welfare, esacerbando le diseguaglianze. Anche qui, modello Italia: la felicità a deficit, perché non c’è crescita e di alzare le tasse non se ne parla, soprattutto data l’evasione fiscale stimata.
Certo, possiamo sempre scrutare l’orizzonte attendendo il boom di produttività indotto dall’intelligenza artificiale, che solleverà la crescita e renderà il debito sostenibile e in parte riassorbito. Ma, fossi in voi, non tratterrei il respiro nell’attesa.
Photo by No.10 on flickr – CC BY-NC-ND 2.0