DeGenerazioni
par Ila&laluna
sabato 21 marzo 2009
Molte sono le differenze che intercorrono tra la seconda e la terza generazione, tra i figli del primo boom economico sul finire degli anni ’50 e quelli del secondo boom, avvenuto intorno agli anni ’80.
Da una parte ci sono i giovani dei viaggi in autostop o semplicemente con la propria auto, i bambini che giocavano con giocattoli di legno o col pallone, gli amanti della carta stampata; dall’altra coloro che oltrepassano i limiti spazio temporali immergendosi nella realtà virtuale di internet, i viaggiatori che si muovono prevalentemente in aereo e i bambini che preferiscono i videogiochi ai nascondini (personalmente mi dissocio da questo tipo di scelta, viva i giochi all’aperto).
Colei che scrive si colloca nel secondo gruppo, anche se all’interno della stessa coorte si possono notare ulteriori differenze in molti ne risentiamo, ma la frattura più netta, ovviamente si compara con la generazione dei genitori, appartenenti al primo gruppo.
Ultimamente il mio ruolo è strano e duplice: sono contemporaneamente sociologa, quindi osservatrice e “oggetto di studio”.
Che cosa cambia nella vita dei giovani di ieri e di quelli di oggi? Cambiano le seguenti sfere: lavoro, famiglia, rapporti sociali. A fare da collante tra questi ambiti è la parola chiave precarietà.
Noi siamo i giovani nati precari prima ancora di acquisire lo status di lavoratori, siamo coloro che avranno una pensione ridotta all’osso prima ancora di concludere gli anni di servizio, siamo i figli della televisione che mano a mano vengono adottati da internet e vivono nel cyberspazio oltre che sul mondo terreno. Nella nostra generazione, però, non siamo tutti uguali, c’è chi diventa schiavo di internet, chi è in grado di affiancarlo ai rapporti interpersonali, chi ricorda a memoria le sigle delle pubblicità degli anni precedenti ma è immerso in una fitta rete associativa nel suo quotidiano, chi invece si perde nell’informazione disinformante della televisione assorbendo tutto in modo acritico e rischiando di sviluppare solo una buona dose di cinismo.
Noi siamo i “bamboccioni” by Schioppa che non possono acquistare una casa perché costretti a fare i “fannulloni” by Brunetta per buttarsi nel meraviglioso mondo del lavoro part-time sottopagato, piatto forte del menù del mercato italiano. Eh già, non ne facciamo una buona noi giovani senza testa sulle spalle, d’altronde a che ci serve una testa se non possiamo neanche usare gli occhi per guardare un po’ al futuro? La terza generazione di cui si parla è quella con il più alto tasso di titoli di studi e il più basso di contratti di lavoro, è il paradosso del sistema della pubblica istruzione italiano, continuamente sottoposto a diverse riforme.
Non è solo il lavoro che ci manca, ma è un senso di stabilità generale che purtroppo la generazione precedente non ci ha lasciato o forse ci hanno provato, ma esse è evaporata prima ancora di poterla cogliere. Forse abbiamo ereditato solo i loro valori, cosa non da poco, ma l’epoca dei moralismi inizia a tramontare. Oggi dobbiamo fare i conti con una società cinica e sempre più vuota, dove tutto ruota intorno a veline e calciatori, ai chirurghi estetici e alle xenofobie indotte. Tutto ci apparirà e resterà immutato finché si resterà fermi ad osservarlo passivamente. Se si comincia ad agire anche soltanto riflettendo su ciò che ci circonda probabilmente le cose potranno cambiare.
La stabilità che non abbiamo ereditato ricade anche sui rapporti interpersonali che costruiamo strada facendo. Anno dopo anno conosciamo sempre più persone che sempre anno dopo anno scompaiono in una nube infinita di conoscenze reali e virtuali. Cosa ci rimane? Ci rimangono quei legami poco più stabili di amicizia, di coppia e famigliari sui quali però riversiamo le nostre ansie, sì, l’ansia di veder sfumare anche questi, perché in ognuno di noi in fondo, c’è il bisogno innato di condividere, di sentirsi (nel senso di pathos) reciprocamente, il tutto anche per non essere soli e per evitare quindi di essere risucchiati dal vortice della società sempre più scheletrica nella quale viviamo, la società del rischio e dell’incertezza, così com’è vista da sociologi postmoderni come Beck, Giddens e Bauman.
E allora, voi della seconda o forse prima generazione, prima di etichettarci come colpevoli di qualcosa, o di qualcosa che non abbiamo ancora fatto, pensate al clima in cui stiamo crescendo e alle responsabilità che in parte ci buttate addosso e in parte ci ritroviamo di nostro a dover affrontare. Per i giovani di oggi non è così facile farsi carico del bagaglio culturale ereditato e non poterlo mettere in pratica, non è facile costruirsi una famiglia se non si garantisce nemmeno a sé stessi un tetto per via di un lavoro che oggi c’è e fra 6 mesi non ci sarà più, sempre se si ha la fortuna di trovarlo, o meglio, se si cerca lo si potrà anche trovare, ma nella maggior parte dei casi sarà inadeguato alle competenze acquisite e quindi carico di frustrazione prima ancora di accettarlo.
Ma nonostante questo quadro grigio e complicato io in qualche modo riesco ad essere ottimista.