De Magistris, Alfano e la memoria corta

par Giuseppe Aragno
lunedì 6 ottobre 2014

Con la memoria corta è meglio non scherzare e alla sua età Alfano farebbe bene a stare sul chi vive. Lui non se lo ricorda, ma per Berlusconi, condannato per frode fiscale e falso in bilancio con sentenza passata in giudicato, pretendeva la permanenza in Senato e il ruolo di padre costituente, che il pregiudicato si è poi ritagliato. Per il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, condannato in primo grado per un improbabile abuso d’ufficio, il ministro ha messo mano in un battibaleno alla legge Severino e chiesto al prefetto la sospensione. Non s’è trattato di un cambiamento d’idea, com’è naturale che accada a questo mondo. Per Alfano i colori dell’arcobaleno si sono ridotti a sfumature di grigio.

Il Presidente del Senato Grasso, ex magistrato, non ha invocato la maestà della legge e non ha pensato di dimettersi, quando la Corte Costituzionale l’ha informato che era stato eletto con una legge truffa, un vero e proprio inganno per gli elettori e la Costituzione. Grasso non ha gridato allo scandalo nemmeno quando la banda dei nominati sistemati in Senato come lui grazie a una legge incostituzionale, ha messo mano alla riforma della Costituzione. Come se nulla fosse, l’ineffabile Grasso ha immediatamente chiesto, però, con invidiabile scelta di tempo, le dimissioni di De Magistris.
Questa è l’Italia ormai, al settimo anno di regno di Giorgio Napolitano, spedito per la seconda volta al Quirinale perché, guarda un po’, la Costituzione non proibisce esplicitamente la rielezione del Presidente della Repubblica. Che è come dire: lo possiamo eleggere anche dieci volte, perché la Costituzione non ce lo vieta. Pazienza se poi la repubblica parlamentare diventa una monarchia incostituzionale. Questo è lo stato dell’arte, mentre il fior fiore dei «nominati», a cominciare da Brunetta, punta il dito su De Magistris, che non ha avuto la «sensibilità politica» di farsi graziosamente da parte nel momento in cui si sente odore di quattrini e i lupi affamati calano in branco dai monti, per spartirsi la torta.

Sarà l’idea sbagliata di un napoletano che non può guardare la faccenda con imparziale distacco, ma a me pare che il colpo portato a De Magistris più che figlio di un improvviso e miracoloso bisogno di legalità, sia una pugnalata alla schiena della città. Non dirò, perciò, con Travaglio, che il sindaco avrebbe dovuto dimettersi e accontentare i lupi: uno storico sa che la legalità somiglia molto alle nobili bandiere con cui si giustificano gli interessi inconfessabili celati dietro le guerre: guerra per la democrazia, guerra per libertà, guerra umanitaria e chi più ne metta, ma si tratta sempre di oro, mercati e petrolio.

Non dirò nemmeno che la legge Severino è chiaramente incostituzionale, perché cancella la presunzione d’innocenza e ha un inaccettabile valore retroattivo. Mi limiterò a rilevare che si tratta di un colpo azzardato, che si potrebbe rivelare un passo falso e ridare fiato e senso politico a un’esperienza che rischiava di svilirsi nel silenzio, nelle divisioni e nelle difficoltà di comunicazione. Un colpo che restituisce De Magistris alla città per quello che è stato all’inizio: speranza di cambiamento, bastone tra le ruote dei giochi di potere, degli intrallazzi e delle larghissime intese sulle spartizioni tra i «grandi partiti», che da vent’anni, fingendo di farsi la guerra, hanno arricchito le tasche di pessimi politici e ridotto alla fame chi già stentava.

Certo, i soliti noti – Bassolino, Lettieri, Migliore – e dietro di loro Renzi e l’alleato Berlusconi – potrebbero vincere la partita e mettere ancora una volta le mani sulla città. Perché non accada, è necessario anzitutto che difendere Palazzo San Giacomo non voglia dire scendere in campo in difesa di un uomo. Non servirebbe al sindaco e non sarebbe utile alla causa della città. Qui si tratta anzitutto di difendersi dalla peggiore speculazione, difendendo quel tanto di democrazia – sia pure formale – che sopravvive alla crisi. Se si riuscirà a creare una mobilitazione su questi temi – e per farlo occorre volare alto – forse potranno esserci allo stesso tempo una ripresa di interesse e di iniziativa politica attorno a De Magistris e una rinnovata presa di coscienza del sindaco: senza un dialogo fitto con la gente, l’esito è scritto e lo si vede chiaro.

Per quanto mi riguarda, ho un ricordo limpido: una lontana serata di fine luglio del 2012 e una breve discussione con De Magistris sul concetto di legalità. Tutto sommato ci si intese, anche se poi non sempre mi è sembrato che il lavoro del sindaco abbia seguito la rotta iniziale. E questo va detto. Attestarsi su una generica idea di “legalità” è stato un errore di prospettiva solo a tratti corretto. Un errore di cui ora il sindaco paga le pesantissime e ingiuste conseguenze; non è un caso se una malintesa idea di “legalità” fa da base all’attacco che non è riuscito sul terreno politico. Bisogna distinguere tra legalità e giustizia. La legalità è un’arma a doppio taglio: «legali» furono anche le condanne di Gramsci e Pertini, che certo non erano giuste o accettabili; «legale» è la condanna ingiusta che colpisce De Magistris. C’è stata una «legalità fascista» e ce n’è una che si va imponendo a sostegno della «democrazia autoritaria» che si sta costruendo. Attorno a questo ragionamento, si può forse riaprire il dialogo coi movimenti, riprendere un percorso ed evitare l’accusa strumentale che si fa circolare: «Così diceva anche Berlusconi». Falso, ma micidiale. Occorre a tutti i costi uscire da questo terreno minato e recuperare la centralità della giustizia, quella sociale, perché fu l’elemento comune che aggregò forze diverse attorno a De Magistris.

 

Foto: Santino Patanè/Flickr


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