Ddl Costituzionale del Governo 31 marzo 2014. Una critica

par Aldo Giannuli
sabato 28 giugno 2014

 

Nei primi del maggio scorso sono stato audito, in veste di esperto della materia, dalla Commissione Affari Costituzionali del Senato in riferimento al ddl governativo di riforma del bicameralismo. Dopo alcuni giorni, ho inviato alla Commissione un appunto riassuntivo di quanto avevo sostenuto e che qui presento nella sua prima parte. Ovviamente, il testo che vi presento è parzialmente superato dall’attuale proposta elaborata dalla Presidente della Commissione Anna Finocchiaro e dal capo gruppo della Lega Roberto Calderoli. Tuttavia la parte iniziale delle critiche che formulavo mi sembra ancora attuale e comunque mi pare opportuno rendere pubblico quel documento, anche per un obbligo di trasparenza.

 

Commento alla proposta di riforma del bicameralismo perfetto.

Premessa

L’aspetto che merita maggiore attenzione dell’attuale progetto di riforma costituzionale avanzato dal governo è la sua palese disorganicità. In questo, l’attuale progetto prosegue una tendenza inaugurata con la riforma della legge elettorale del 1993 e che ha visto affermarsi una sorta di “costituzionalismo random” (se ci si passa il termine).

In questo ventennio, la Costituzione è stata rimaneggiata a più riprese ed in più parti: dalla modifica dell’immunità parlamentare ai rapporti con la Ue, all’art. 81 sul pareggio di bilancio sino al Titolo V che è stata la parte più tormentata. Infatti, alla riforma del 2001 (poi approvata dal successivo referendum di ratifica) è succeduta quella del 2005 (bocciata, invece, in sede di ratifica referendaria) e, dopo numerosi interventi attuativi o correttivi, oggi nuovamente sottoposta a processo di riforma.

Il Legislatore è intervenuto a tratti e ponendosi raramente il problema dell’interazione con le altre norme di sistema, soprattutto in riferimento all’evolvere dell’assetto comunitario, finendo per scoprire i guasti solo man mano che si manifestavano. L’esempio tipico in questo senso è stato quello dell’adozione di un sistema elettorale maggioritario in un regime di Repubblica parlamentare a bicameralismo perfetto. Chiunque si occupi della materia sa che il sistema maggioritario produce uno spostamento di seggi più che proporzionale allo spostamento di voti, per cui a variazioni anche minime di voti seguono sensibili discostamenti nella distribuzione dei seggi; dunque, si comprende facilmente perché in nessun caso di sistemi parlamentari a bicameralismo paritario ci sia una legge elettorale maggioritaria, per evitare il rischio di maggioranze differenziate nei due rami del Parlamento. E questo sarebbe stato ancora più probabile in Italia, considerando che:

a- l’elettorato fra i due rami del Parlamento è diverso per età

b- il sistema elettorale non può che essere diverso perché la Costituzione stabilisce che quello del Senato debba essere su base regionale.

E’ significativo che in 5 elezioni politiche (1994, 1996, 2001, 2006, 2008) in tre occasioni (1994, 1996 e 2006) la maggioranza al Senato fosse assai risicata, mentre alla Camera poteva contare su margini ben più ampi. E, dunque, l’ipotesi dell’”anatra zoppa” fra i due rami del Parlamento, era un’eventualità largamente probabile che solo per caso non si è verificata prima del 2013.

I problemi più seri si sono prodotti proprio in relazione ai rapporti Stato-regioni, oggetto di ripetuti interventi di riforma e successive modifiche.

Quello che risulta evidente, da un esame della storia costituzionale di questi venti anni, è che non si sia affermato un organico modello di democrazia alternativo a quello contenuto nel testo costituzionale del 1948. È mancata sia una riflessione sul mezzo secolo di Prima Repubblica, sia un bilancio del ventennio di maggioritario ed il risultato è la prosecuzione di una prassi di interventi occasionali e pensati sulle urgenze politiche del momento. Ma le Costituzioni sono fatte per durare nel tempo, ben oltre le contingenze politiche.

La seconda perplessità riguarda l’opportunità di operare una riforma costituzionale in presenza di un Parlamento eletto con una legge dichiarata incostituzionale dalla Consulta. La stessa sentenza precisa che il Parlamento è pienamente legittimato ad operare, per il principio della continua operatività degli organi dello Stato, ma è palese che questo argomento abbia piena efficacia a riguardo della produzione legislativa ordinaria, che può anche avere caratteri di necessità ed urgenza, mentre è discutibile per quella di ordine costituzionale che, per definizione, non ha mai caratteri di necessità ed urgenza (e, infatti, è esclusa dalla decretazione). E tale rilievo acquista ulteriore peso ove si consideri che, almeno in teoria, potrebbe verificarsi il caso di una modifica costituzionale proprio sugli articoli in base ai quali la Corte ha dichiarato incostituzionali due aspetti fondamentali della legge elettorale, in modo tale da annullarne gli effetti, ma, con questo, aprendo un conflitto di attribuzioni senza precedente.

Ma veniamo al merito del ddl.

 

Osservazioni sulla riforma del titolo I

Quello che il ddl tratteggia è un Senato con competenze residuali. Di fatto, la seconda Camera, perde non solo il potere di esprimere la fiducia al governo, ma anche gran parte del suo potere legiferante, salvo che per la possibilità di rivio alla Camera di provvedimenti già approvati che, però, se confermati, diverrebbero ugualmente legge. Dunque, più un potere ostruzionistico che effettivo.

Fra le competenze residue dell’organo, rinveniamo la partecipazione all’elezione del Presidente della Repubblica e quella alla formazione della Corte Costituzionale, con modalità nuove. Infatti, diversamente dal passato che affidava al Parlamento in seduta comune il compito di eleggere i 5 giudici di espressione parlamentare, l’attuale normativa ne attribuisce tre alla Camera e due al Senato, in votazioni separate.

Di fatto, questo tipo di Senato, diventa una sorta di conferenza Stato-Regioni dotato da un lato di un potenziale ostruzionistico nei confronti della Camera (attraverso il rinvio delle leggi), dall’altro del potere di elezione di due giudici costituzionali. Tutto questo suggerisce la facile previsione che esso si trasformi in una sorta di “gruppo di pressione” degli enti locali verso il governo centrale. E gli eletti in Corte sarebbero i naturali difensori delle ragioni delle autonomie locali nel contenzioso per conflitti di attribuzione.

Un secondo ordine di perplessità viene dal carattere non elettivo dell’organo che ha una legittimazione di secondo grado, e per di più con una quota sensibilmente più elevata del passato di senatori di nomina presidenziale (diventano 21). La questione riguarda in particolare l’elezione del Presidente della Repubblica. Nell’ordinamento attualmente vigente, la componente non elettiva o elettiva di secondo grado (delegati regionali e senatori a vita) si aggira intorno alle 65 unità, su poco più di 1.000 elettori, quindi una percentuale intorno al 6%. Con la riforma proposta si arriverebbe a 126 senatori di provenienza enti locali, 21 senatori di nomina presidenziale e qualche deputato a vita, per un totale di circa 150 elettori su 780, cioè poco meno del 20%. Il che sembra una percentuale piuttosto elevata, senza tener conto che, se in futuro dovesse essere deciso un taglio al numero dei deputati, essa salirebbe ulteriormente.

D’altra parte, l’organo appare inutilmente pletorico e, se si comprende la ratio della presenza dei governatori e dei rappresentanti di Regione (sul modello tedesco e Usa che riserva la rappresentanza senatoriale ai Land ed agli States), non si capisce il senso della forte presenza dei sindaci che, per di più, crea una incomprensibile disparità fra sindaci-senatori e sindaci semplici.

Un’ultima perplessità riguarda la funzionalità dell’organo, in buona parte composto da Presidenti di Regioni e sindaci che si immaginano legati al lavoro in sede e scarsamente disponibili a frequenti trasferte romane. Dunque, una sorta di dopolavoro per amministratori locali di assai dubbia funzionalità.

 


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