Dario Fo, da Premio Nobel a emulo di D’Annunzio

par enzo sanna
giovedì 4 aprile 2013

Affrontare, in un articolo che tratta di politica, alcune “visioni” di un grande quale Dario Fo, riferimento pluridecennale di innumerevoli intellettuali e di tanta, tantissima gente comune, tra la quale chi scrive queste note, non può che far tremare i polpastrelli sulla tastiera. Eppure la faccenda appare meno dissacrante, persino normale, dopo aver appurato che anche i premi Nobel possono spararla grossa! Il riferimento non va al nostro Dario Fo, bensì al suo “collega di Nobel” Lech Walesa il quale si è profuso, di recente, in una disgustosa perfomance contro i gay.

 

Si prenda atto, dunque, che anche i premi Nobel sono soggetti a “scadere”, pertanto assoggettabili al giudizio altrui, e che la gloriosa medaglia appuntatagli sul petto può tramutarsi in “patacca” qualora non se ne mantenga e se ne rinnovi l’onorabilità in ogni come e in ogni dove. Lungi dal voler ricondurre queste ultime considerazioni al citato nostro Dario Fo, resta comunque il fatto di poter considerare le sue ragioni politiche al pari di quelle espresse da ogni altro “cittadino” sia esso appartenente al “terzo stato”, al Clero come alla Nobiltà (sembra impossibile, eppure, con le varianti del caso, stiamo rispolverando, agli inizi del nuovo millennio, i ceti della Rivoluzione francese).

A questo punto qualcuno si chiederà: vabbè, ma dov’è l’analogia, di cui al titolo dell’articolo, tra Dario Fo e Gabriele D’Annunzio? Eccoci: Gabriele D’Annunzio sta al fascismo come Dario Fo sta al grillismo. D’Annunzio fu “nume” del fascio e del regime mussoliniano pur senza mai aderirvi, anzi, prendendone spesso le distanze, in questo malamente tollerato.

Ciononostante, il fez, la camicia nera, il pugnale e la mazza ferrata, erano stati durante la guerra l’armamento distintivo degli ‘arditi’, e dagli ‘arditi’ furono importati a Fiume; sostituirono soltanto la crudele mazza ferrata con un più gentile manganello“, (tratto da “Arditi e legionari dannunziani “ di R. Cordova). Ebbene, anche lui, Dario Fo, parrebbe rivestire il ruolo di “nume” grillino, ispiratore della “divisa” d’ordinanza dei cinque stelle e delle loro armi proprie e improprie ove il “gentile manganello” di dannunziana memoria trova analogia nel non meno devastante interventismo blogghista degli adepti al movimento. Fo, dunque, ispira costoro pur non sposandone interamente l’ideologia sfascista, anzi a volte denunciandola, seppur in maniera sommessa, come fu allora per D’Annunzio.
 
Altra analogia tra i due sta nel fine utilizzo del loro intelletto per contraddire e smascherare una società allora moralmente bigotta, oggi falsamente laica. Solo i grandi dispongono di queste facoltà. Ponendo fine alle analogie, però, non risulta che D’Annunzio si sia mai “abbassato” a scrivere “a sei mani” un libercolo di qualità dubbia quale “Il Grillo canta sempre al tramonto” in cui un imbarazzato Dario Fo colloquia col duo Grillo-Casaleggio.

Se il testo citato dovesse rappresentare, come sembra dalle intenzioni, una sorta di manifesto politico del M5S, beh, gli elettori sono ben che serviti. Dario Fo, dall’alto della sua infinita cultura, beccheggia in maniera impressionante tra i flutti scomposti del Casaleggio-pensiero e quelli terra-terra di un Beppe Grillo giustamente in posizione prona al cospetto del Premio Nobel il quale, nonostante gli immani sforzi profusi nel “governare la nave”, spesso si arrende lasciando che i flutti sommergano il ponte.
 
Insomma, nella partita Gabriele D’Annunzio vs. Dario Fo si pronosticava un pareggio, invece D’Annunzio segna un punto a proprio favore, difficilmente recuperabile dal nostro Fo. Anzi, per colmo d’ironia, è proprio D’Annunzio a coniare lo slogan più appropriato al M5S: “Non vogliamo più la verità. Dateci il sogno. Riposo non avremo, se non nelle ombre dell’ignoto”.
 

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