Da dove vengono gli umori secessionisti del Veneto

par Aldo Giannuli
sabato 5 aprile 2014

La storia dei secessionisti arrestati, con il loro ridicolo carro armato da strurmtruppen, se non emergeranno altri elementi da far riconsiderare la storia sotto altra ottica, probabilmente finirà presto nel dimenticatoio; e c’è da sperare che i magistrati non pesino troppo la mano contestando reati sproporzionati rispetto alla reale pericolosità di questa pagliacciata. Non abbiamo bisogno di martiri. Però la questione degli umori separatisti veneti non va presa sottogamba, non tanto per l’effettivo pericolo di una separazione di quella regione (o quelle tre regioni), quanto per le dinamiche che può innescare.

Conviene dunque cercare di capire quali siano le ragioni di questo malessere territorialmente concentrato in una regione, anzi, ad essere precisi, nel suo centro situato nel triangolo Padova-Vicenza-Treviso. Non si tratta di un fenomeno con ragioni di breve periodo, ma di qualcosa che ha radici che affondano lontano nel tempo.

Il Veneto, come tutti sanno, è sempre stato una delle regioni più cattoliche della penisola, ma di un cattolicesimo molto tradizionalista, assai poco incline al progressismo e privo della forte caratterizzazione sociale tipica del cattolicesimo lombardo. Qui, le figure del sindacalismo cattolico, come Guido Miglioli sono più rare e di minore rilievo. Il cattolicesimo veneto ha dentro di sé una istintiva diffidenza verso la politica e lo Stato ed è una delle componenti più tipiche di quella Italia storicamente antipolitica, che ha resistito alla pedagogia del Risorgimento prima, del fascismo poi, dell’antifascismo e della Resistenza ancora dopo.

Il fascismo risolse il problema mettendo in divisa tutti, anche gli antipolitici, integrandoli, con le buone o con le cattive, nel proprio sistema. La Dc fece uso di un altro strumento di consenso: la distribuzione selettiva delle risorse, di cui il Veneto fu uno dei principali beneficiari per il grande peso che i suoi esponenti ebbero in quel partito (un Presidente del Consiglio come Rumor, segretari del partito come Guido Gonella, potenti ministri come Bisaglia o Gui per non dire di De Gasperi e Piccoli che erano del limitrofo Trentino). Chi non ricorda la Pi-Ru-Bi, l’autostrada Trento, Vicenza, Rovigo, cosiddetta dalle iniziali dei rispettivi esponenti Dc, Piccoli, Rumor e Bisaglia? Così come la legislazione di favore per i coltivatori diretti, gli artigiani ed i commercianti (componenti sociali di buon peso nel Veneto degli anni Cinquanta e Sessanta) ebbe un ruolo non marginale nel soddisfare la domanda politica di quella regione. E vale anche la pena di ricordare il tentativo di industrializzazione della Regione da parte delle Ppss, al pari del sud, con l’istituzione del polo petrolchimico di Marghera.

A partire dai tardi anni Settanta, tuttavia, ci furono sempre meno risorse da distribuire, anche solo per una parte del corpo sociale, inoltre, il Veneto vedeva cadere uno dietro l’altro i suoi principali esponenti democristiani (Rumor e Gui abbattuti dal processo Lockheed nel 1976, Bisaglia annegato nel 1984) senza che emergesse nessun personaggio capace di sostituirli. Di conseguenza, i flussi di risorse che giungevano alla regione iniziavano a farsi più magri del passato. Il risultato paradossale fu che, proprio il surplus di risorse distribuite in precedenza, rese più acuta la sensazione di deprivazione relativa e, per di più, nello stesso tempo, iniziava a farsi pesante la mano del fisco. È quello il periodo in cui nasce l’immaginario di un popolo veneto che dà allo stato centrale molto più di quel che ne riceve.

A rafforzare queste tendenze contribuirono anche le trasformazioni sociali della regione, dove la componente agricola si riduceva fortemente, la politica dei grandi impianti come quello di Porto Marghera si ridimensionava e parallelamente si affermava il modello dei distretti industriali e della polverizzazione del tessuto produttivo in una miriade di piccole e piccolissime imprese: nasceva così il mitico “modello del nordest”.

Questa politica (sciaguratamente benedetta anche da Pci e Cgil) produsse una borghesia di prima generazione votata ad una accumulazione selvaggia, che mal tollerava i vincoli della legislazione del lavoro e della tutela ambientale e, soprattutto, non sopportava affatto la crescente pressione fiscale.

Da quel malcontento nacque la Liga Veneta che, nel 1983, ebbe il suo primo successo elettorale. Dopo di che, con la nascita della parallela Lega Lombarda, l’incendio divampò e, quando giunse l’ondata delegittimante di Mani Pulite, il Veneto fu in testa all’ondata populista-liberista (quella “emulsione” di cui parla Giovanni Orsina nel suo libro sul berlusconismo). Lega e Forza Italia qui raccolsero i loro più cospicui bottini elettorali. Forza Italia ha retto per un certo periodo, più in grazia delle promesse che delle effettive realizzazioni. La Lega, alle consuete promesse di una diversa politica fiscale e di una legislazione di favore per le piccole e medie imprese, ha aggiunto altre due componenti decisive per il suo consenso: l’ostilità contro gli immigrati (che coglieva la netta sensibilità identitaria di quelle comunità) e la prospettiva separatista che risvegliava antiche suggestioni. La Serenissima ha sempre animato l’immaginario veneto come una stagione di grande prosperità, sciaguratamente interrotta dal trattato di Campoformio. La Liga ripropose anche il mito di una risorgente repubblica di San Marco con la rivoluzione del 1849, magari incurante del fatto che il suo eroe, Daniele Manin, in realtà era un agente dei servizi segreti di Cavour, ma i leghisti, si sa, sono di bocca buona e mandano giù qualsiasi frottola.

A ridare vigore all’assopito immaginario della repubblica veneta, a cavallo fra i Settanta e gli Ottanta, venne anche l’esperimento dell’Alpe Adria che legava in un patto di collaborazione il triveneto con regioni austriache, slovene, croate, magiare, il che dava la sensazione di una diversa allocazione geoeconomica del Veneto. E di lì, il passo verso una diversa dislocazione statuale non era lungo.

La Lega colse, dunque, una domanda che andava nascendo e che si trattasse solo di un immaginario scarsamente fondato sia storicamente che economicamente, non aveva alcuna importanza, perché funzionò ugualmente e non solo elettoralmente.

Istanze identitarie, recriminazioni anticentralistiche, antipolitica, vulgata neoliberista, rivendicazioni economiche, mito federalista: tutto è confluito in questo miscuglio che, però, ha cementato un sentire comune andato oltre la stessa crisi leghista (prodotta dal crollo di credibilità innescato dalle vicende del Trota e di Belsito).

E la protesta dei veneti si è incanalata verso il M5s, ma non è detto che il treno si fermi qui. Nel 1990 nessuno avrebbe immaginato che il bastione democristiano sarebbe franato in così poco tempo e nel 2010 qui la Lega prese il 40% e nessuno avrebbe detto che solo tre anni dopo sarebbe franata anche lei. Il Veneto è una regione che ha svolte rapide e poco prevedibili.

Fra un anno si vota, occorre andarci con proposte forti che sappiano distinguere fra le richieste legittime e quelle da respingere, ma che soprattutto siano capaci di disegnare una reale possibilità di ripresa dalla regione. Pensiamoci perché le soprese potrebbero essere molto sgradevoli: forse non ci avete fatto caso, ma il Veneto dista dall’Ungheria di Orban solo un centinaio di Km o poco più. Non è molto.


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