Cultura strumento di integrazione? Chi può dirlo...

par Enrico Miglino
giovedì 30 ottobre 2008

Una storia (vera) di bambini e culture differenti che la dice lunga su quanto siamo lontani da quell’ideale di società multietnica di cui ci piace tanto riempirci la bocca.

“Piacere di conoscerti” è lo slogan che l’apparato statale trasmette alla popolazione in uno spot che va in onda quasi a reti unificate nell’ora della pubblicità: pranzo e cena, gli orari di massima audience televisiva per eccellenza. É un inno all’integrazione, che in pratica recita: se rispetti le leggi l’Italia è felice che tu sia venuto nel nostro paese; ovviamente sorvolando su come ci sei arrivato, gommone, barca strapiena, sopravvissuto fortunato, emigrato sfigato.
 
Nel frattempo, qua e là, insabbiati quando possibile e minimizzati quando emergono, continuano a verificarsi strani episodi che – ma non si può dire – ci ricordano molto da vicino fenomeni di razzismo bello e buono, un po’ alla “Mississippi burning”, per intenderci. Sarà forse che l’americanismo dilagante ci ha contagiati?
 
Fatto sta che ogni volta che questi fatti si verificano, in pieno stile italico, ben pochi si sognano di analizzarne le cause e tanto meno le motivazioni; è proprio questa la critica da muovere. È probabile che andando a fondo emergano modelli educativi distorti, una didattica inefficace e di stampo medievale in un mondo costretto ad evolvere nella direzione globalizzata di un adeguamento. Quella che vorrei sollevare, prendendo spunto da un fatto che è accaduto nelle marche qualche settimana fa, è la questione dell’integrazione nel nostro paese dal punto di vista della carenza umana degli abitanti. Nel ventennio che va dalla metà degli anni sessanta agli anni ottanta, un termine come “revisionismo storico” ci faceva inorridire, riportandoci agli anni bui ancora alle porte; adesso invece non è più inteso in modo così drammatico soprattutto dalle nuove generazioni; pare, anzi, quasi un’ottima soluzione per rendere accettabile l’insostenibile.
 
Non sono “contro” la globalizzazione a priori, e cerco sempre di affrontare le cose dal punto di vista giornalistico; qui mi pare che il punto focale sia proprio che globalizzazione non va d’accordo con educazione.
 
Torniamo indietro di qualche settimana, siamo in una biblioteca del maceratese. Due fratellini entrano per informarsi su come fare ad avere libri in prestito. La bibliotecaria spiega che essendo minori (dieci anni il fratello maggiore, otto la sorella) devono tornare con uno dei genitori e i moduli compilati per il primo prestito, poi potranno fare tutto da soli. Sono felici e affascinati dalla situazione, dai libri, dalle migliaia di possibilità che si stanno aprendo di fronte ai loro occhi.
Primo segnale: quando la bibliotecaria chiede alla bambina che libri le piacciono questa risponde che è il fratello a sceglierli. Sono due bambini indiani, appartengono ad una cultura radicalmente diversa dalla nostra e in ogni caso, qualsiasi proposta possano ricevere come alternativa alla loro – anche quella che a noi “occidentali” può sembrare migliore in senso assoluto – questa resta sempre un fatto discutibile. Discutibile e non condannabile, da nessuna delle parti.
 
Il pomeriggio successivo il bambino si ripresenta in biblioteca dicendo di aver perso i moduli. Il fatto si può supporre sia stato discusso in famiglia, perché non sono più necessari due moduli, ne basta uno: “solo uno per me, perché la mamma ha detto che non iscrive G. in biblioteca”
 
Nei giorni successivi, con un certo coraggio la bibliotecaria ha affrontato la mamma, ed è riuscita ad ottenere l’iscrizione alla biblioteca comunale di entrambi i fratelli; mentre si discuteva del fatto, la bambina nel frattempo era rimasta sola, chiusa in macchina; soltanto dopo che è stata decisa la concessione dal genitore, il fratello è andato a chiamarla.
 
Questa storia è un’occasione per riflettere, proprio sullo spinoso tema dell’integrazione. Ma credo che molte spine risulterebbero meno lesive, se a monte di una legge che tutela l’individuo all’interno dello Stato, lo stesso Stato si occupasse di spiegare chi è lo straniero che giunge in Italia da ogni parte del mondo.
 
La cultura non è omologabile: è pensiero e se il pensiero deve essere libero, forse è il caso di abbandonare quell’atteggiamento da missionari portatori di verità, un po’ retrò e un po’ colonialista per cominciare a guardare il diverso come realmente è: differente. Il passo successivo è fare di questa differenza la ricchezza di un paese che istituzionalmente si vanta di essere multietnico ma dimentica che deve poter garantire, in armonia, un altro aspetto ancora più importante: il multiculturalismo, una delle armi più potenti contro il razzismo che, giornalismo a parte, non posso fare a meno di condannare da qualsiasi etnia, ceppo, famiglia o continente provenga e venga alimentato. Così, tanto per non dispiacersi troppo di appartenere al genere umano.


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