Cronache dalla frontiera della civiltà. Come l’Università cambia affinché nulla cambi

par Francesco Finucci
giovedì 2 dicembre 2010

Martedì 30 Novembre 2010: Storia di una manifestazione pacifica e di forze dell’ordine dislocate per tutta la città come se si progettasse un colpo di stato.

Qualcuno, in un’affrettata analisi degli eventi delle ultime ore, della protesta di Roma quanto dell’ostinata approvazione del Ddl Gelmini, potrebbe citare le parole di Foscolo, rassegnandosi al fatto che “il sacrificio della patria nostra è consumato”.

A lungo si potrebbe discutere sull’effettiva efficacia di questo provvedimento pomposamente proclamato “Riforma dell’Università”, e, in caso di risposta negativa, sul come e perché sia all’atto pratico incapace di migliorare la situazione degli studenti italiani. Ancora, ci si potrebbe chiedere se della malafede si nasconda dietro questo atto legislativo, e sul perché acquisti una tale priorità su altri disegni di grande interesse (perlomeno nell’ottica del Premier), quali il “Lodo Alfano costituzionale”.

Domande queste che necessitano di risposte, ma che acquistano il loro peso effettivo, soprattutto in virtù del fatto che chi è dotato delle conoscenze giuridico-istituzionali per diradare la cortina di fumo che avvolge qualsiasi legge prodotta dal nostro stato, non sembra avere alcuna intenzione (o nessun interesse) di farlo.

Si parla, e molto, ma si dice poco.

Non si spiega, per esempio, che il fenomeno di aziendalizzazionedi qualsiasi forma di espressione umana, endemico nella società contemporanea, trova la sua istituzionalizzazione nel primo comma dell’Articolo 2 del suddetto Ddl, quando è scritto:

attribuzione al consiglio di amministrazione della competenza a deliberare l’attivazione o soppressione di corsi e sedi”.

Ancora, non si spiega come la spinta verso la privatizzazione dell’Università non consista semplicemente nella proposta di uno spostamento di fondi, tra l’altro ritirata, anche se la voce che asserisce questo non è delle più autorevoli, trattandosi di Roberto Cota (Lega Nord).
Consiste invece nella necessità da parte delle facoltà di procacciarsi i fondi tramite l’attuazione del comma 7 dell’Articolo 4, ossia attraverso:

 “versamenti effettuati a titolo spontaneo e solidale da privati, società, enti e fondazioni”.

Di come, insomma le Facoltà si troverebbero in piena stagione di caccia allo “sponsor”, in una condizione analoga a quella già effettiva dei Ricercatori.
Questo comporterebbe uno stravolgimento del ruolo finanziatore-beneficiario, in quanto, da una parte si inserirebbero “benefattori” che in quanto privati non si troverebbero nella condizione di essere super partes come lo stato è (o dovrebbe essere); dall’altra verrebbe portato avanti un processo di formazione, non di cittadini, ma di lavoratori, laddove Facoltà dotate di un impatto più diretto su industria e imprenditoria, si ritroverebbero avvantaggiate nei confronti delle altre, non meno importanti, Facoltà.

Facoltà ridotte nella condizione dei Ricercatori, insomma, e Ricercatori ancora posti di fronte alla necessità di doversi accaparrare fondi come in una tragicomica caccia al tesoro (che poi, tra l’altro, risulta anche piuttosto misero) che ha un sapore di lotta per la sopravvivenza. E privati di contratti a tempo indeterminato.


Rimane, infine, irrisolto il problema che ci è stato sventolato in urlanti (quanto vuote) orazioni da qualunque dei nostri inetti governanti ed ancora più inetti giornalisti politici, o politici giornalisti, data l’evidente parzialità dei discorsi con i quali tentano di aggraziarsi ora questo, ora quel deputato.

Cambia, infatti, qualcosa riguardo al cosiddetto “baronato”? I dubbi restano, in quanto non solo si burocratizza il percorso per accedere alla cattedra universitaria, ponendo intermediari e quindi possibili filtri antidemocratici (Art. 16), ma si crea un conflitto tra area didattica (Senato Accademico, Rettorato) ed area economica (Consiglio di Amministrazione).

Qualcuno ha sintetizzato questa Riforma con le parole più giuste, quelle del “Gattopardo”, in quanto, come nella Sicilia post-unitaria, si “cambia tutto per non cambiare niente”.

Ad un occhio disincantato e, forse, dotato di un'eccessiva vena pessimistica, risulta più che ovvio che una classe politica così refrattaria troverà sempre il modo di andare avanti nonostante cammini, ora più che mai, sulle ceneri di uno stato pronte a scatenare l'inferno alla prima folata di vento.

Alla luce di un vero e proprio scollamento tra “paese reale” e “paese istituzionale”, infatti, risulta quanto meno utopistico l'obiettivo da alcuni posto alla manifestazione di ieri di bloccare il Ddl o, addirittura, di far cadere il governo.

Eppure, non tutto si esaurisce nell'inchiostro apposto sulla carta, né tanto meno lo Stato può dirsi racchiuso nelle leggi e nei decreti.

Quello che rimane di una Roma surreale e forse, per un giorno, ancora più autentica e vera, non sono solo pendolari allibiti e turisti incuriositi, né il cielo plumbeo che scroscia sulla capitale una pioggia pesante e continua.

Rimangono invece le immagini di migliaia di studenti che resistono al freddo, alla stanchezza, alla pioggia ed alla paura delle cariche della polizia, dislocata per tutta la città come se si progettasse un attacco allo Stato.

Rimangono le sette, infinite ore di marcia che non piegano le migliaia di manifestanti, di destra, di sinistra, studenti, ricercatori, professori...

Rimane il ritmo battuto sul guardrail della Via Flaminia occupata, al quale si aggiungono i clacson delle macchine, gli sguardi degli automobilisti, che, come ha detto qualcuno più abituato di noi alle manifestazioni, invece di prendere i manifestanti a parolacce, li applaudono e sostengono.

Rimane la voce unanime che grida “vergogna”, la roca rabbia di un paese stanco, tremendamente stanco di dieci, venti, trent'anni di politica vuota e priva di qualsivoglia significato.

Rimane lo stato di polizia provocato da una classe politica moribonda e mai morta, i blocchi stile G8 che, come un ridicolo e insignificante “Ordine Nerone”, più che un atto di forza assumono la forma di una dimostrazione di debolezza. Forse è stato Cesare a dire che solo i dittatori hanno bisogno di guardie del corpo...

Rimane Roma che ferma la sua corsa e avverte il suo respiro, per un momento, che riflette su sé stessa, sul suo blocco completo di qualsiasi movimento, solo per ascoltare, non solo le esplosioni dei fumogeni, le grida delle cariche o l'urlo di un paese stanco da morire, ma anche la parità di condizione dei suoi cittadini, di fronte alla stasi che ci affligge da settant'anni.

Rimane, infine, l'urlo lanciato sotto la pioggia, che il paese esiste, c'è ed è dannatamente incazzato, e non più disposto ad un ossequioso consenso, perché fiducioso nella veridicità delle parole di Sandro Pertini, che certamente meglio di quelle di Foscolo descrivono questo strano paese:

Liberi fischi, in libero stato”.


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