Critica e propaganda: storie di diritti e limitazioni (auto)imposte
par UAAR - A ragion veduta
giovedì 14 aprile 2016
Non è possibile tutelare la libertà di una persona di esercitare i suoi diritti in senso assoluto, occorre sempre metterli in relazione a diritti e interessi altrui, sia individuali che collettivi, tant’è che si parla comunemente di limiti invalicabili: la tua libertà finisce dove comincia la sua. Questo principio è talmente logico e condiviso da non costituire di per sé oggetto di contesa. Il problema vero infatti, il nodo del contendere, non sta nel principio ma nell’individuazione di quei limiti, quei paletti che ognuno cerca inevitabilmente di allontanare da sé. Spesso dalla comunità etnico/religiosa a cui appartiene. E qui son dolori.
Un editoriale pubblicato recentemente su Charlie Hebdo, rivista che certamente di libertà d’espressione, e quindi di critica, ne sa qualcosa, ha sollevato un acceso dibattito sulla sempre più diffusa tendenza a privilegiare il rispetto verso comuni ideali religiosi contro le critiche che a essi vengono mossi. Il meccanismo descritto è tanto semplice quanto efficace: si fa leva sulla propaganda, che a sua volta fa leva sugli ideali propri delle democrazie evolute sul piano del contrasto alla discriminazione, per costruire due categorie perfette e complementari; da un lato abbiamo una comunità fondata su principi che di democratico non hanno assolutamente nulla, ma che viene comunque dipinta come meritevole di un livello di rispetto che arriva alla vera e propria intoccabilità, dall’altro abbiamo la categoria opposta di chi cerca di criticare quella comunità ma finisce per trovarsi invece egli stesso sommerso da critiche per aver osato rivolgersi agli intoccabili.
Inutile dire che lo stesso Charlie Hebdo ha incarnato nell’occasione quest’ultimo stereotipo, anche perché le sue critiche partivano dagli attentati terroristici di matrice islamista, fino ai più recenti attacchi di Bruxelles, per individuare una correlazione tra queste tragedie e la facilità con cui si cuciono etichette di islamofobia addosso a chi semplicemente critica l’islam.
Su un articolo pubblicato da il Post si trovano riferimenti a diverse prese di posizione contro l’editoriale, che in pratica convergono tutte più o meno sullo stesso assunto: la rivista ha detto che tutti i musulmani sono terroristi. Ma ha veramente detto questo? Sicuramente non lo ha fatto in modo esplicito e probabilmente non lo ha fatto nemmeno implicitamente. Sembra la solita storia del dito che indica la luna, perché è vero che a una veloce lettura si può anche trarre la conclusione che il giornale satirico ce l’abbia col panettiere barbuto che non serve panini al prosciutto, ma cercando di scorgere quello che viene indicato dal dito si capisce che quella è solo una premessa.
Il succo del ragionamento è un altro e critica forse più noi stessi e il nostro sistema di comunicazione, la nostra scala di valori, piuttosto che il mondo islamico. Il titolo lo dice chiaramente: “Come siamo finiti fin qui?”. Il soggetto è “noi”, non “loro”, perché di fatto siamo noi ad aver costruito qui un sistema basato su caste religiose, siamo noi ad aver riconosciuto loro la facoltà di poter discriminare in barba ai diritti umani — perché evidentemente le comunità prevalgono sugli individui — e adesso siamo sempre noi a morderci clamorosamente la lingua per non rischiare che qualcuno ci dia dell’islamofobo. È questo che gli editorialisti denunciano ed è più o meno la stessa cosa che Charb scrisse nel suo manifesto postumo. Definendo loro islamofobi non si fa altro che confermare le loro teorie.
Perfino Tehmina Kazi, responsabile media per l’associazione British Muslims for Secular Democracy, che come dice il nome rappresenta musulmani che credono nella laicità, ha commentato positivamente l’editoriale e ha criticato le prese di posizione di chi li accusa di bigottismo. Per Kazi il panettiere che si rifiuta di vendere carne di maiale non fa in principio nulla di sbagliato, così come non lo fa nemmeno il ristorante vegetariano dietro l’angolo, ma aggiunge: “Charlie Hebdo ci dice che nel momento in cui le persone cambiano le proprie abitudini per paura, aprono la strada alle pretese di chi vuole limitare i diritti altrui”. Purtroppo però la maggior parte dei musulmani non la vedono allo stesso modo.
I musulmani appartengono a una comunità religiosa nella quale esistono forme di condizionamento che portano a ritenere donne, atei e gay come soggetti detentori di minori diritti. Anche altre dottrine religiose, tra cui quelle cristiane, prevedono regole simili e sono potenzialmente in grado di generare forti tensioni sociali, ma operando in contesti più secolarizzati la loro azione risulta mitigata. Nel mondo islamico questa sorta di filtro fra la teoria dottrinale e la pratica sociale è molto più blando, come ha confermato un’indagine del Pew Forum qualche anno fa.
Paradossalmente poi, in occidente lo stesso condizionamento sociale viene attuato grazie a regole democratiche che, in nome di un malinteso diritto di espressione religiosa, consentono loro di farlo, col risultato di preparare un terreno di coltura che favorisce l’attecchimento di estremismi. Un quarto dei musulmani britannici, secondo un sondaggio condotto da ICM, si dice favorevole all’introduzione della sharia, la metà di loro non accetterebbe un insegnante omosessuale per i propri figli e, nonostante tutto, l’80% di loro continua a ritenersi britannico. Le politiche multiculturaliste si sono rivelate fallimentari, piuttosto che incoraggiare la vera integrazione hanno generato dei ghetti, ma si fatica a prenderne atto. Perfino molti di quei musulmani che non frequentano le frange più radicali esitano a condannare gli atti di terrorismo, perché comunque il senso del martirio in nome e a difesa di valori della comunità di appartenenza ha la sua presa su un’ampia fetta del mondo islamico.
Del resto anche la nostra democrazia ha concepito il principio di separazione tra Stato e Chiesa non in senso orizzontale, come entità distinte sullo stesso piano, ma in senso verticale con la prima funzionale all’occorrenza alla seconda, mai viceversa. Noi sappiamo benissimo cosa significa poter contare su una solida propaganda per affermare il potere di una casta, e garantire a essa privilegi che spaziano su qualunque campo e su ogni aspetto della vita di tutti i giorni, dalla culla alla tomba passando per scuola, sanità, diritto di famiglia e quant’altro. La casta che ci portiamo dietro da millenni non incita al martirio, ma riesce tuttora a convincere la maggior parte della gente di essere rivoluzionaria pur mantenendo pressoché intatte le sue regole anacronistiche, avvalendosi di questo riconoscimento per pretendere sempre più potere e denaro. Con un’attenta strategia propagandistica si può ottenere qualunque cosa, dipende solo da cosa si vuole.
Noi europei abbiamo avuto uno Stato teocratico a fare il bello e il cattivo tempo, non siamo ancora riusciti a sbarazzarcene e adesso ci troviamo a dover fare i conti con altre culture che pretendono lo stesso trattamento di favore. Difficile poter dire loro di no quando agli altri si dice sempre di sì, per poterlo fare occorre ripensare l’intero sistema e il concetto stesso di laicità, mantenendolo alla larga da qualunque aggettivo che possa alterarne il senso. Di tanto in tanto arrivano segnali confortanti da questo punto di vista, come ad esempio il caso della cattolica Polonia dove qualcuno è riuscito a mandare letteralmente a quel paese il prete che ha cercato di sconfinare in ambiti che non riguardano il suo ruolo, nel caso in questione il diritto all’aborto. Segnali confortanti di insofferenza popolare, sebbene il governo polacco abbia promesso di continuare sulla via del clericalismo. Altre volte arrivano segnali opposti, come nel caso dell’Air France che prima ha chiesto ai dipendenti di adeguarsi ai costumi dei paesi islamici e poi ha ripiegato su una sorta di obiezione di coscienza. E allora forse qualcosa non sta andando per il verso giusto.
Massimo Maiurana