Crisi del debito, stato sociale e cittadinanza

par Daniel di Schuler
giovedì 8 dicembre 2011

Da qualche tempo non si fa che ripetere, e lo fanno soprattutto oltreoceano, che la crisi del debito non rifletta solo gli errori compiuti durante l’affrettata creazione della moneta comune, ma piuttosto la debolezza intrinseca del “sistema europeo” fondato, per orrore dei miei amici americani, sullo stato sociale.

In Europa, effettivamente, a parte una miglior definizione del ruolo della BCE e una maggior integrazione delle politiche fiscali dei vari paesi (io sogno addirittura la creazione di un ministero europeo delle finanze che sia parte, ovviamente, di un più generale governo europeo), qualche problema lo abbiamo, ma tra questi non figura certo lo stato sociale, perlomeno nei paesi dell’Unione dove questo esiste davvero.

Di più: lo stato sociale, dove ben gestito, consente notevoli risparmi; è un elemento di forza del modello europeo, non il contrario.

Un modello, detto per inciso, che ha prodotto debiti complessivi nettamente inferiori a quelli statunitensi (il debito totale degli USA rispetto al PIL è, udite udite, maggiore di quello italiano) e che consente all’Unione di avere tra i suoi membri, ancora oggi, quattro dei primi otto paesi esportatori al mondo. E a parte l’Italia, di cui dirò più avanti, gli altri tre sono paesi che hanno un vero e più o meno efficiente stato sociale; si tratta di Germania, Francia e Olanda.

Detto altrimenti, grazie anche allo stato sociale, la vecchia Europa ha un’economia reale, che gli Stati Uniti dovrebbero solo invidiare, la cui forza, anche per errori di noi europei, non è pienamente apprezzata dai mercati finanziari, ma che, ne sono certo, a lungo termine (il mio unico dubbio riguarda alla possibilità che questo “lungo termine” ci sia concesso), finirà per emergere.

Quel che è difficile ficcare nelle teste troppo condizionate dalla propaganda neo-con, è che lo stato sociale, anche là dove non è certo gestito con la massima efficienza, consente netti risparmi nell’erogazione dei servizi rispetto a qualunque sistema privatistico. Alla fine, con buona pace di chi pensa che il privato, per chissà quale ragione, sia più efficiente del pubblico, i costi sono gli stessi, ma nessuno ci guadagna sopra. O perlomeno non lo fa apertamente.

Possiamo comprendere quanto sia vero quel che dico, confrontando la spesa sanitaria degli Stati Uniti con quella del nostro paese. Per vivere un poco più a lungo degli americani, gli italiani, grazie alla sanità pubblica, spendono per la propria salute solo l’8% del PIL; gli statunitensi, affidandosi alla sanità privata, esattamente, il doppio.

Concentrando l’attenzione sul nostro continente, è facile vedere come, a parte il caso irlandese, la crisi del debito coinvolga proprio quei paesi, dell’area mediterranea, che hanno uno stato sociale solo embrionale o, come l’Italia, non l’hanno, se si intende propriamente il termine, quasi per nulla; quei paesi che, guarda caso, presentano una distribuzione della ricchezza e del reddito dannatamente simile a quella statunitense.

Ancora un volta, prendo l’Italia come esempio; dati OCSE appena usciti alla mano, il nostro indebitatissimo paese, che già brillava per ingiustizia sociale, nell’ultimo ventennio ha visto una crescita economica praticamente nulla, mentre la parte di reddito nazionale a disposizione dell’1% più ricco della sua popolazione passava dal 7% al 10%.

In assenza di un vero stato sociale, e di una vera politica di redistribuzione dei redditi, la maggioranza degli italiani si è impoverita progressivamente, mentre una piccola minoranza si andava arricchendo sempre di più; è questo che ha determinato la contrazione del mercato interno che, mentre le nostre esportazioni hanno in buona sostanza tenuto, è la causa prima della scarsa crescita che abbiamo fatto registrare dalla fine degli anni 80 in poi.

Ridicolo, quindi, parlare di crisi dello stato sociale, specie in riferimento ad un paese come il nostro, dove il diritto allo studio non è mai stato riconosciuto, non sono mai stati predisposti meccanismi di aiuto alle famiglie ed ai giovani e non esiste neppure un sussidio di disoccupazione.

Noi italiani abbiamo generato una montagna di debiti, ma non lo abbiamo fatto per costruire uno stato sociale di fatto ancora inesistente. I politicanti, dal 1982 in poi, ci hanno rovinato solo per acquistare consensi, distribuendo a pioggia pensioni a chi non ne aveva diritto e posti di lavoro inutili nel pubblico impiego; assegnando appalti a chi praticava prezzi dieci (o più) volte superiori a quelli di mercato e svendendo a prezzi di favore pezzi del patrimonio pubblico. Concedendo, più in generale, diritti senza imporre doveri, primo tra tutti quello elementare di pagare le tasse.

Una gestione demenziale della cosa pubblica che è durata fino ad ieri, sotto gli occhi di tutti e con la complicità di tutti. Abbiamo sempre pensato, in cuor nostro, che lo Stato fosse cosa diversa da noi; che i suoi denari non fossero nostri, che i suoi beni fossero di altri. Che di altri fossero i suoi debiti e che altri li avrebbero pagati al nostro posto.

La crisi del debito, specie quella italiana, non è dunque una crisi dello stato sociale, ma una crisi di un certo modello di cittadinanza. Di una maniera d’intendere lo Stato, purtroppo comune anche ad altre realtà mediterranee, che certo avrà le sue radici nella nostra storia (il libro di Putnam del 1993, Making Democracy Work: Civic Traditions in Modern Italy, è ancora il testo da leggere), ma che non possiamo più permetterci di avere.

La Repubblica non è un signore feudale cui è giusto rubare denari, che è lecito truffare e alle cui imposizioni è quasi doveroso, addirittura ammirevole, sfuggire. La Repubblica siamo noi, come riaffermiamo ogni volta che paghiamo le tasse: chi le ruba, ruba a noi; chi usa male i suoi denari, spreca i nostri.

Un concetto elementare, alla base di qualunque corso di educazione civica.

Forse, con le costosissime ripetizioni che dovremo pagare nei prossimi anni, arriveremo a capirlo.


Leggi l'articolo completo e i commenti