Crescita, decrescita, non crescita

par Fabio Della Pergola
giovedì 27 settembre 2012

C’è un banale problema di fondo, nella dimensione economica che conosciamo come “economia di mercato” che un totale inesperto (come chi scrive ad esempio) non riesce proprio a capire e che provoca questioni che frullano da tempo nella testa di molte persone.

Perciò, in occasione della presentazione di un interessante e fruibilissimo libro di economia titolato “Crisi: (come) ne usciamo?” (notare la parentesi inquietante) di Carlo d’Ippoliti per L’Asino d’oro Editore, mi è sembrata appropriata una domanda che ho cercato di esprimere in modo sintetico ai presenti, chiedendo come è possibile ipotizzare una ‘crescita infinita’ parlando di produzione di oggetti materiali che - in quanto “materia” - sono “finiti” per definizione.

Mi spiego meglio. Se oggi mangio un etto di spaghetti posso facilmente supporre che un’azienda alimentare domani debba produrre quell’etto che io stesso ho consumato. In questo caso si tratterebbe, mi pare, di un’economia di sostituzione del consumato. Si può facilmente immaginare che ciò avvenga anche per sostituire i prodotti deteriorati, quelli che si rompono, quelli ormai esauriti. Posso anche capire che si possano cambiare, in quest'ottica, i vestiti fuori moda. Sostituzioni insomma.

Ma tutto ciò continua a farmi pensare ad una “produzione” infinita, non ad una “crescita” infinita.

Il concetto di crescita infinita significa che se oggi l’azienda alimentare di cui sopra dovrà produrre l’etto di spaghetti che mi sono mangiato, domani dovrà - per crescere - produrre un etto e mezzo, e dopodomani due etti e poi tre e quattro e così via all’infinito appunto.  Perché se non cresce, collassa. Tutta l’economia se non cresce collassa, lo sentiamo dire ogni giorno. Siamo tutti, più o meno consciamente, sotto l'influenza dell'andamento del PIL: va bene se cresce, va male se cala.

Ma quanti spaghetti può consumare un essere umano ad ogni pasto? E quanti bisogni, di cui finora non si è sentito il bisogno, possono stimolare in una persona gli esperti di marketing ed i pubblicitari? O gli stilisti ed i designer?

Quanti telefonini e quanti computer o tablet o altro posso continuare a comprare perché l’economia abbia la sua chance di continuare a crescere? Non ho niente contro le innovazioni tecnologiche e nemmeno contro i consumi in sé. Spesso li apprezzo. Alcuni mi possono sembrare demenziali, altri interessanti o utili o anche piacevoli. Di sicuro non ho mai sprecato la vita per fare soldi da buttare poi in acquisti idioti, ma non ne faccio una questione di etica o di “intelligenza”. Non ne faccio nemmeno una questione ideologica. Mi chiedo solo se davvero questo sistema ha una possibilità di crescere all’infinito oppure se si profila all’orizzonte quel crash finale da brividi.

Mi pare semplicemente che i due termini, “infinito” e “finito”, riferiti rispettivamente alla crescita economica ed alla materialità degli oggetti prodotti, non stiano insieme. L’uno non ci azzecchi con l’altro; il rapporto fra i due sembra essere un rapporto impossibile.

Prima o poi - dopodomani o fra duemila anni - la crescita finirà, perché la materia non è, di per sé, infinita. E non lo sono nemmeno le risorse né la capacità della terra di reggere uno sviluppo che appare sempre più insostenibile.

Il sistema che si fonda sulla “crescita infinita” per non collassare, sembrerebbe avere in sé (e se per caso Marx l’aveva già detto allora aveva ragione) il gene dell’autodistruzione (ma forse Marx ne indicava un altro di motivi). Almeno così appare ad una mente sempliciotta ed inesperta come la mia.

Ma mi sembra di aver capito che anche la teoria della “decrescita” abbia preso spunto iniziale dalla considerazione di un impossibile infinito nella crescita economica. In questa teoria però, preso atto che “crescita infinita” e “prodotti finiti” non stanno insieme, si è scelto di modificare il primo termine proponendo di gestire una non-crescita.

Il rapporto fra i due termini diventa così: “crescita finita” di “prodotti finiti”.

Trasformando il primo termine - da infinito a finito - si suppone di aver risolto l’incongruenza genetica del sistema. Ma ai miei occhi (di inesperto) questa sembra essere una soluzione di equilibrio pericolosamente instabile che per funzionare dovrebbe aver bisogno di una forte gestione economica centralizzata. A parte il suono un po’ lugubre da Piano Quinquennale, a voi pare che la politica sia davvero in grado di gestire un’economia mantenendola in equilibrio su un tasso zero ? O non ci vorrebbe costantemente un governo ‘tecnico’ per farlo ? E la democrazia che fine farebbe ?

Ma, a parte queste considerazioni pessimistiche sulla possibilità di gestione, mi sembra che sia un’ipotesi che si propone di azzerare la crescita o per aver maturato la convinzione che sia la sola strada percorribile oppure per motivi ideologici da buon vecchio anticapitalismo che ogni tanto riemerge. In entrambi i casi non ho alcuna riserva né critica da fare.

Mi piacerebbe invece ipotizzare di poter trasformare la crescita, non di bloccarla. Cioè cambiarne i connotati.

Perché allora non proporci di modificare il secondo termine (“prodotti finiti”) anziché il primo (“crescita infinita”)? Avremmo di nuovo un sistema fondato sulla “crescita infinita”, ma questa volta di “prodotti” (qui ci vogliono le virgolette) che avremmo trasformato anch’essi in “infiniti”. L’incongruenza sistemica potrebbe essere risolta anche in questo modo.

I prodotti infiniti non possono essere altro che tutto ciò che appartiene all’immateriale, ovviamente. Un’economia fondata sulle caratteristiche non materiali dell’essere umano. Cultura, scienza, ricerca, arte; che altro? Lasciando alla materialità delle cose la pura economia di sostituzione o poco più (ad esempio nuove scoperte o invenzioni).

Utopia? A pensarci bene mi pare che in qualche misura il "primo mondo" sia andato già in questa direzione; quanto valgono ai fini della crescita economica i grandi avvenimenti culturali, i grandi concerti, le mostre, le manifestazioni sportive di portata globale come le olimpiadi o i campionati di calcio? Quanto il cinema? O il campo vastissimo dell'informazione?

E non vi pare che la speculazione finanziaria funzioni così anche lei ? Comprare e vendere “cose” materiali sarebbe attività industriale e commerciale, ma in finanza si comprano e si vendono ipotesi, prospettive, interpretazioni, valutazioni: non-materia, insomma. E speculandoci sopra, a partire dalla famosa “bolla dei tulipani” nell’Olanda del Seicento, quando al commercio di bulbi (cose materiali) si sostituì velocemente il commercio dell’ipotesi (immateriale) che la proprietà di un bulbo avrebbe avuto un valore molto più alto qualche tempo dopo. Oggi mi pare che si chiamino futures.

La gente si giocò la casa per acquistare un titolo che gli dava la proprietà di qualcosa che non si sapeva se fosse esistito di lì a due mesi o se nel frattempo fosse marcito, se avesse o non avesse prodotto un fiore, né infine che valore avrebbe avuto. Quando le autorità preoccupate dell’andazzo completamente fuori controllo imposero un improvviso stop al commercio dei futures dei tulipani, un sacco di gente rimase con un pugno di mosche in mano; non come gli speculatori della finanza attuale.

Alla fine: se vogliamo ipotizzare un futuro per la nostra società ed evitare capitomboli drammatici come quello che viviamo, dovremmo per forza farci delle domande sulla realtà di questa nostra economia ed imparare dagli speculatori che si occupano davvero di “crescita infinita”. Per togliergli lo strumento ed usarlo per aumentare il benessere (fisico e psichico) degli esseri umani, non il loro personale conto in banca. In mano loro è un giocattolo un po’ troppo pericoloso.

Continuare così, continuare a pensare di dover produrre sempre più macchine e lavatrici e telefonini, sperando di poterlo fare per non rischiare di perdere tutto all'improvviso, sembra un po' demenziale.

Fermo restando, sia chiaro, che nell'immediato avremmo proprio bisogno di rilanciarla questa benedetta crescita, perché senza lavoro la gente si ammala, puramente e semplicemente, di disperazione e non ha né tempo né voglia di occuparsi di progettare nuovi panorami per l'umanità del futuro.


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