Craxi e quella scomoda riabilitazione

par Sergio Talamo
mercoledì 21 gennaio 2009

Sono nove anni che non c’è più Bettino Craxi, e ancora l’Italia non ha saputo decidere se a morire in Tunisia, solo e disperato, fu un suo grande uomo politico oppure “un avventuriero, anzi avventurista, uno spregiudicato calcolatore del proprio esclusivo tornaconto, un abile maneggione e ricattatore, un figuro moralmente miserevole e squallido, un bandito politico di alto livello che ha un modo di vedere la politica di stampo mussolinesco, cioè narcisistico e intimidatorio con un’assoluta mancanza di senso dello Stato” (Enrico Berlinguer, dichiarazioni fra il 1978 e il 1984).

Le biografie ufficiali, per la verità, lo hanno da tempo riconsiderato come merita, cioè come un figlio ed un padre della sinistra moderna. Ma sulla scena politica continua ad aleggiare il fantasma di una Repubblica sepolta da una “rivoluzione” che ha lasciato molte più ombre di quelle che seppe dissipare.
 
Chissà cosa direbbe, Bettino Craxi, se vivesse nell’Italia della “casta”. Non si stupirebbe di trovarsi d’accordo con il riformista Giorgio Napolitano, che invoca cambiamento e rinnovamento. Il Presidente, del resto, echeggia il monito craxiano “una ricostruzione necessita di uomini nuovi, idee nuove e linguaggi nuovi”.

L’unica differenza è che le parole di Craxi datano metà anni ‘90, gli anni dell’esilio. Forse invece sorriderebbe nel trovarsi d’accordo con Massimo D’Alema: “È in atto una crisi della credibilità della politica che tornerà a travolgere il paese con sentimenti come quelli che negli anni ’90 segnarono la fine della Prima Repubblica”.
 
Eh, già. La novità è una sola: coloro che allora lanciavano scomuniche e monetine oggi si trovano dalla parte del bersaglio. Qualche tempo fa fu Paolo Mieli ad emettere la sentenza: “Forse è utile provocare un altro infarto come quello di 15 anni fa”.

 
Si può ipotizzare che la malattia della “casta” di oggi sia figlia proprio della ghigliottina di allora. In quella stagione furono spazzati via alcuni pezzi della nomenclatura da una parte della nomenclatura stessa, che riuscì a tirarsi fuori e a prendere in mano le redini della Repubblica. Oggi è come se la storia presentasse il conto: il sistema venuto fuori dalla “rivoluzione” non è più snello ed efficiente di quello che fu distrutto e certo non meno costoso per la collettività.
 
E resta anche il vuoto di una cultura politica che la sinistra non ha saputo più recuperare, soprattutto sul versante dei consensi. Gli elettori che furono socialisti e laici votano in gran parte a destra, e sono socialisti alcuni fra i ministri più brillanti del governo Berlusconi.
 
La sinistra liberale non c’è, non decolla, non convince. Il Psi che si sfaldò all’inizio dei ’90 era stanco e logoro ma nel decennio precedente era stato il lievito della politica, recuperando l’eredità di un socialismo che non nacque statale né ideologico ma federativo, laico, garantista. Il Psi di Craxi contrapponeva i nuovi ceti, le nuove professioni, la creatività e il self made man a figure più conservatrici ed al "ventre molle" dei bot-people.

Oggi questa frontiera è rappresentata da un mondo di vecchie e nuove esclusioni ignorate da una società che invecchia e consolida le sue iniquità. E’ un Quinto Stato di diseredati, giovani senza welfare, donne senza servizi per essere insieme madri e lavoratrici, cittadini immigrati…“Sottoitaliani esclusi dai patti”, direbbe Francesco Giavazzi.
 
E’ un Quinto Stato di “non cittadini” che, al contrario di quelli del Quarto di Pellizza da Volpedo, spesso non sembrano straccioni: hanno la cravatta e la ventiquattrore. A volte vivono con la lauta pensione di papà (anzi, Giuliano Cazzola dice che spesso sono “alleati” di papà per lasciare il Welfare così com’è). 
 
E’ un popolo che nessuno rappresenta più. L’Italia di Craxi era minoritaria ma vitale. E’ quell’Italia che fu mandata in esilio e che non è ancora tornata.

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