Coronavirus | La Pandemia è collettiva, il confino è politico

par Francesca Barca
lunedì 6 aprile 2020

Non sono neanche tre settimane che siamo in casa in Francia. Emotivamente è stato più forte i primi giorni, più triste, più ansiogeno. Mi sono assestata in una routine che fa sì che il tempo passi piuttosto veloce: non ho problemi con la solitudine al momento, ho tempo di leggere di più, di cazzeggiare di più. Questo naturalmente perché, seppure basso, ricevo uno stipendio anche se sto a casa.

Foto: Parigi, fb https://www.instagram.com/f_b______...

Non sono neanche tre settimane che siamo in casa in Francia. Emotivamente è stato più forte i primi giorni, più triste, più ansiogeno. Mi sono assestata in una routine che fa sì che il tempo passi piuttosto veloce: non ho problemi con la solitudine al momento, ho tempo di leggere di più, di cazzeggiare di più. Questo naturalmente perché, seppure basso, ricevo uno stipendio anche se sto a casa. 

Mi dico, da un lato, che sono pronta per la pensione — datemi la minima e firmo ora — dall’altra che ci abitua molto rapidamente, troppo facilmente, agli obblighi imposti.

Ieri sera abbiamo avuto una lunga discussione con amici — l’ennesimo scambio al telefono, l’ennesima video chat — e si è quasi litigato, pause dovute alla cattiva connessione permettendo, sulla quarantena.

H. parlava di collettivo, scartando volutamente il personale: «Il nostro confinement è un problema piccolo-borghesi perché siamo confinati bene tutto sommato; la nostra libertà personale e la riflessione sul confinement sono l’ultimo dei problemi, c’è chi lavora tutti i giorni per continuare a far vivere il capitale».

E non posso che annuire, mentre bevo un bicchiere di vino biologico.

B., dall’altro lato (stesso bicchiere in mano) partiva dalla sua esperienza per farne, anche lei, una questione collettiva, ma un po’ diversamente: «La mia privazione di libertà è la stessa che obbliga tanti altri ad andare a lavorare; la privazione delle libertà e l’accettazione supina sono un problema sul quale dobbiamo riflettere. Soprattutto, non si tratta di pensare sempre ai miei cari ma di pensare che siamo in collettività. Ci riguarda tutti».

Ora, le posizioni si assomigliano per certi versi anche se, per H. c’è una questione di priorità: la dimensione personale è in secondo o terzo piano perché, dice «la mia libertà finisce dove inizia la tua e se la gente muore, e il mio sacrificio è solo il confinement, allora che mi costa?».

E qui, nonostante il vino biologico, non annuisco. Perché c’è qualcosa che ha a che fare con il ricatto, collettivo e personale, in questo discorso che tutti e tutte abbiamo sentito.

Cosa ci costa? Ci costa personalmente, ci costa collettivamente. Costa a chi ha dovuto smettere di lavorare per “stare sul divano”, costa a chi deve andare a lavorare. Costa a chi la vive in condizioni deprecabili, per tutte le ragioni che ci possono venire in mente.

Costa tanto a chi questo isolamento non può reggerlo, per un motivo o per l’altro. E entrambi sono validi perché non siamo militari, non dobbiamo rispondere a nessun appello della nazione. Costa perché non è una mia responsabilità se il Sistema Sanitario sta esplodendo perché non è all’altezza della situazione. La gente non muore per colpa mia, la gente muore perché non riusciamo a curare tutti, o a curare bene chi ha necessità.

Gira da qualche tempo il meme sui nonni e la guerra, lo abbiamo visto tutti — “Ricordati che ai nostri nonni fu ordinato di andare in guerra, a noi stanno chiedendo di stare sul divano” — e d’istinto ti fa annuire. Io mi sono sentita in colpa quando l’ho letto la prima volta. Mi è stato inviato solo tre volte, e ho sentito questa frase negli scambi che ho in questo periodo, con diverse persone, più di una volta.

Il discorso collettivo, pseudo bellico, il canto dell’inno di Mameli e soprattutto, il sacrificio personale in nome della salute collettiva, perché «sennò la gente muore» è UN modo di raccontare, è UN modo di leggere quello che sta succedendo, è un modo di riconoscere e additare, anche, il dissidente. Possiamo aderire, per carità. Ma anche no. Quello è un tipo di mondo, non l’unico possibile. Possiamo scegliere come raccontarci, personalmente ma soprattutto, collettivamente, quello che sta succedendo. Perché è un evento collettivo. Mai “il personale è politico” mi è sembrato tanto contemporaneo.

Non è colpa mia se i posti letto in terapia intensiva sono 5mila invece dei, butto un numero a caso, 60mila necessari (la Germania aveva 28mila posti letto in TI prima della crisi, per esempio e le cose stanno andando diversamente); non è colpa mia se non sono stati fatti stock di mascherine che permetterebbero per esempio, una distanziazione sociale più sicura (quella sì NECESSARIA) e non per forza la quarantena per tutti. E non così tanti morti.

Per esempio: In Francia due anni fa una fabbrica che poteva produrre fino a 200 milioni di maschere all’anno è stata chiusa perché riacquistata da un’impresa americana che ha delocalizzato la produzione in Tunisia. Lo Stato, che era un acquirente con contratto di fornitura, non ha fatto nulla per impedirne la chiusura e la distruzione di tutte l’impianto di produzione. Che è stato buttato in discarica.

Altro esempio: la delocalizzaione della produzione di farmaci.

Personalmente (questo personalmente è ancora una volta anche collettivo, non è un pensiero solo mio) la situazione attuale fa sì che la quarantena sia ragionionevole e necessaria. Ma alla luce delle cose di cui sopra, alla luce delle mancanze immense di un sistema inadeguato e mal gestito.

Non perché stiamo individualmente portando la croce della patria sulle spalle. Non siamo in guerra. E, anche se fossimo in guerra, alla guerra si può dire no.

Ma ha senso la quarantena se la gente continua ad andare al lavoro? E non perché gli va, non perché è il loro progetto (il ristoratore, il piccolo commerciante, il piccolo artigiano che vivono di una loro indipendenza; loro si stanno rovinando ma gli viene chiesto “solo” “di stare sul divano”) ma perché devono. Ancora una volta sono gli operai, i lavoratori precari, gli uberizzati, quelli che sono in fondo “alla catena di produzione”, quelli pagati ai minimi sindacali che portano, loro sì invece, il peso collettivo.

Non uccido nessuno se vado a fare una passeggiata. Non uccido nessuno se parlo con un vicino per strada a tre metri distanza.

E se lo fanno tutti? Come la metti allora lo fanno tutti? Il punto è che non lo fanno tutti, perché siamo collettivamente responsabili. Lo facciamo tutti di uscire una volta in più perché è complicato. Ma soprattutto ci sono situazione dove non è complicato, è insostenibile, per violenza, per solitude, per isolamento, per povertà, per…

Ma appunto, le strade non sono piene perché sui grandi numeri COLLETTIVAMENTE (e statisticamente aggiungo) siamo responsabili. E quando incontri qualcuno fuori, sei fuori pure tu. In maniera consapevole e responsabile, sei fuori pure tu.

Collettivamente dobbiamo chiedere, pensare, mettere in pratica delle alternative al “dopo”. Delle alternative al “prima”, perché il prima ha dato questo risultato.

Io non vedo nessuno da quando il confinement è partito, sto a distanza dalle persone, mi metto il gel prima di entrare al supermercato, ringrazio le commesse, ringrazio il postino. I miei amici stanno facendo uguale. Come tanti, come la maggior parte delle persone, pensiamo agli altri, vogliamo bene a chi abbiamo intorno, ci interessa, ci interessiamo.

E, anche, esco tutti i giorni, un’ora, a camminare da sola intorno alle stesse strade. E sto a un km di distanza da casa mia (più o meno, sia chiaro, baro un po’) perché sennò piglio una multa di 135 euro che non mi posso permettere. Ma stiamo sereni: se andassi a 4 km non leccherei i pali della luce, non abbraccerei il panettiere, non starnutirei su un runner. Non ucciderei nessuno.

Invece di fare i poliziotti per procura, usiamo (ci) collettivamente, la gentilezza e l’ascolto che accordiamo a noi stessi (che direbbe Freud : ) e che accordiamo a chi abbiamo intorno perché il nostro vicino non è un nemico.

La quarantena costa — e conta — personalmente e collettivamente.

Questo pezzo fa parte di un diario che tengo qui

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