Confindustria si risveglia e lancia ultimatum al governo
par Daniel di Schuler
martedì 13 settembre 2011
Il presidente di Confindustria lancia un secco ultimatum al governo. Il Paese rischia molto, dice Emma Marcegaglia, e il governo o è in grado di dare concreta prova della propria credibilità o è meglio che se ne vada. La vecchia e traballante "Balilla Italia" ha già due ruote nel baratro e, finalmente, anche i nostri industriali sembrano accorgersene; considerando che tra le loro doti precipue dovrebbe esserci la chiarezza di visione, non mi viene proprio di far loro i complimenti.
Non è la prima volta che Marcegaglia rimprovera il governo, questo le va riconosciuto, ma tale atteggiamento critico è cosa recentissima se paragonata alla durata del (pessimo da qualunque punto di vista) impegno politico di Silvio Berlusconi.
È dal 1994, dalla sua mai abbastanza esecrata discesa in campo, che il nostro duce minimo dà prova di eccessiva disinvoltura nello svolgimento dei propri compiti, mescolando i suoi interessi privati a quelli del paese (una vicenda per tutte? Abbiamo usato fondi pubblici per offrire i decoder per il digitale terrestre ai cittadini, mentre la nostra rete internet, fondamentale per la crescita economica, diventava obsoleta), nominando ministri impresentabili (Cesare Previti alla Difesa credo sia un buon esempio) e trattando con mussoliniano disprezzo le necessità delle finanze pubbliche: una costante degli ultimi 17 anni è stata che i governi di centro-sinistra guidati da Romano Prodi hanno cercato di fare qualcosa per contenere l’ascesa del debito (anche se certamente troppo poco), mentre con Berlusconi al governo i debiti sono sempre e costantemente aumentati.
A fronte di questa quindicennale dimostrazione di malgoverno, ancora nel 2009, i giovani di Confindustria, accoglievano entusiasti l’intervento di Berlusconi al loro convegno di Santa Margherita Ligure. Applausi a scena aperta a chi aveva appena affidato importanti dicasteri a personaggi della levatura di Brambilla, Bondi o Scajola, per non parlare di Gelmini, Carfagna o La Russa, e applausi che sono continuati quando, dando prova di un’alta concezione della democrazia e del liberalesimo, oltre che di una perfetta comprensione della gravità della situazione, il Conduttore nazionale li ha esortati a non dare pubblicità “ai media che cantano ogni giorno la canzone del pessimismo”.
Tutto andava bene, insomma, sulla nave dei folli, nel giugno 2009; chi diceva il contrario, anche per i giovani Confindustriali, era solo un pessimista patologico. Ancora un anno fa, nel luglio 2010, la stessa Marcegaglia, commentando la manovra d’allora, proclamava soddisfatta: “Accolte le richieste degli industriali”.
C’era, dunque, di che fregarsi le mani.
Non so se l’Italia sopravvivrà finanziariamente a questo autunno; ho due figli piccoli e mi auguro innanzitutto per loro, ma qualunque cosa accada, anche se ci dovessimo salvare per il rotto della cuffia, dovremo tutti quanti, prima di puntare il dito contro questa o quella categoria, riflettere sulle nostre responsabilità. Nessuno di noi si può chiamare fuori e tanto meno lo può fare Confindustria.
Dovrà, prima di tutto, prendere atto di avere al proprio interno due anime inconciliabili; non si può pensare di rappresentare gli interessi dei monopolisti, dei signori delle bollette e delle tariffe, di chi vive d’appalti o ad ogni modo di denari pubblici e, contemporaneamente, quelli di chi per prosperare deve produrre ed esportare, affrontando il libero mercato.
Quel che va a vantaggio dei primi, che dipendono dalla politica per i loro affari e non possono che avere con questa un rapporto di simbiosi, va anzi spesso a svantaggio dei secondi, che vorrebbero una maggior competitività del “sistema paese”.
Sta a questi ultimi, a quella che è la parte più sana della nostra imprenditoria, trovare il modo di far sentire la propria voce; di loro, per farcela, avremo disperatamente bisogno e sono loro quelli che hanno più da perdere da una definitiva retrocessione del Paese nel secondo mondo.
Confindustria in questi decenni ha giocato a nascondino, accontentandosi del piccolo cabotaggio, non proponendo mai nulla per lo sviluppo del paese se non il ritornello del “bisogna contenere il costo del lavoro”.
A sentire i suoi proclami, mentre nessuna parola veniva spesa per lo stato disastroso della nostra ricerca, per il livello delle nostre università, per la totale mancanza di aiuti al nostro commercio estero, per il degrado delle nostre infrastrutture, l’obiettivo dell’Italia pareva dovesse essere quello di competere con la Birmania o la Cambogia e non con la Germania.
Gli industriali italiani hanno, in buona sostanza, rinunciato ad essere classe dirigente; non hanno saputo, come categoria, individuare una direzione di sviluppo, un percorso da seguire con e per il Paese. Sono, come tanti di noi, andati a traino.
Hanno continuato ad affettare distanza nei confronti della politica, salvo appoggiare in ogni modo la parte che, senza nessuna visione strategica, sembrava fare meglio i loro più immediati interessi: un comportamento degno dei più sonnolenti bottegai di una sonnolenta cittadina di provincia.
La sveglia pare abbia suonato. Adesso, se non è già troppo tardi, è il momento, anche per loro, di dimostrare di meritare credito.