Come si costruisce un guerra di mafia: i duellanti (terza puntata)
par Pietro Orsatti
sabato 10 gennaio 2009
L’operazione Gotha e quella Perseo colpiscono duramente i clan di Palermo.
E dimostrano che da almeno tre anni si stavano preparando alla guerra. Con gli arresti tornano in evidenza Messina Denaro e Raccuglia. L’obiettivo è l’eredità di Riina
di Pietro Orsatti (su left).
Una sentenza, quella del processo Gotha, e un’operazione condotta dai Carabinieri su ordine della Dda di Palermo, il blitz Perseo del 16 dicembre, hanno dimostrato anche ai più scettici che Cosa nostra, dopo anni di sommersione, sta vivendo una nuova fase di riorganizzazione e di “cambio di vertice”. E lo starebbe facendo attraverso i consolidati metodi e processi dettati dalla tradizione. Uno o più piani di azione, anche contrapposti, accordi, alleanze e quando serve le armi. E andiamo ai documenti, quindi, per capire davvero cosa sta succedendo da tre anni a questa parte in Sicilia e in particolare nel palermitano.
Il processo Gotha fotografa quello che era diventata Cosa nostra nel 2006, quando a fare da collettore, se non capo ad interim dell’organizzazione, era ancora Bernardo Provenzano e i Lo Piccolo erano impegnati a scalare i mandamenti di Palermo anche grazie a qualche mirata “ammazzatina” di esponenti dei gruppi rivali. Nel triennio 1993-1996 Provenzano si era trovato sul fronte opposto a quello di Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca che, dopo l’arresto di Riina, volevano prendersi Cosa nostra dichiarando di fatto guerra allo Stato. Per tutti, e soprattutto per il vertice corleonese, Binnu era diventato l’uomo delle trattative, «spesso poco trasparenti, anche con segmenti importanti delle istituzioni», come racconta la sentenza del processo. «Difficilmente l’avrebbero messo “spalle al muro” con motivazioni nostalgico-affettive per la sua antica provenienza corleonese».
È a questo punto che sale alla ribalta un membro di spicco dei clan, Antonino Rotolo. Questi capisce la debolezza, soprattutto militare, di Provenzano e cerca di attuare la “scalata” su Palermo con altri due boss, formando quella che viene chiamata “triade”. Il gruppo di potere in questione era costituito dal “sanguinario”, dal “costruttore” e dal “medico”, rispettivamente Antonino Rotolo, Francesco Bonura e Antonino Cinà che di fatto da qualche anno governavano Palermo città.
Le intercettazioni fra Rotolo e Cinà raccontano chiaramente il clima del momento. L’11 agosto 2005, dopo aver valutato tutti i possibili scenari, Rotolo e Cinà decidono che Salvatore Lo Piccolo e il figlio Sandro devono essere uccisi. Ritengono che si sia giunti «a un punto di non ritorno». Come durante la guerra di mafia dei primi anni Ottanta, ai tempi dell’ascesa a colpi di omicidi di Riina, Rotolo e Cinà si “tengono chiusi”, non parlano con nessuno, fingono di fare altro, di essere impegnati in altre vicende. Pensano d’impostare le cose in modo tale che quando gli avversari saranno consapevoli di essere in guerra in realtà quella guerra sarà già finita. Sentono il dovere di non dare conto a nessuno di quel progetto di eliminazione dei due avversari, violando il codice interno che sancisce che l’omicidio di un boss sia autorizzato dalla Commissione. Ma in quel progetto un ruolo ben preciso deve ricoprirlo proprio il vecchio Binnu che, al momento, la Commissione la governa, e soprattutto a cui difficilmente Lo Piccolo può negare un incontro. Pensano che sia compito di Binnu attirare il boss in una trappola. Ci avrebbe poi pensato un “gruppo di fuoco” del boss di Pagliarelli a eseguire materialmente il lavoro sporco. Provenzano è con le spalle al muro. O si elimina Lo Piccolo con il suo aiuto o inizia un altro «bagno di sangue». Rotolo, inoltre, decide, d’informare Provenzano attraverso Cinà di «un fatto grave» che lo riguarderebbe direttamente. Proprio Binnu , fa sapere Rotolo al boss latitante, era stato designato come la vittima di una congiura maturata all’interno dell’organizzazione. Si trattava di una vecchia storia di circa dieci anni prima. Ne parla anche Giuseppina Vitale, sorella del boss Vito Vitale capo del clan Fradazza di Partinico, all’autorità giudiziaria il 25 febbraio del 2005. «I fratelli Vitale di Partinico, Giovanni Brusca, Matteo Messina Denaro e Mimmo Raccuglia avrebbero progettato l’assassinio dell’anziano leader corleonese per il suo orientamento antagonistico rispetto all’ala stragista» dell’organizzazione criminale. Quel progetto, secondo “Giusi” Vitale, era appoggiato da Riina e Bagarella, all’epoca già detenuti. L’operazione Gotha e l’arresto dei Lo Piccolo rendono inutile questo tentativo, ma non prima di ulteriori spargimenti di sangue . Ormai è evidente a tutti che, dopo quasi venticinque anni, la pace imposta con le armi dai Corleonesi sta per finire. Senza dubbio i contrasti interni si sono aggravati. E i preparativi della guerra s’innestano in un contesto in cui la posta in gioco è molto più importante della violazione delle regole sul “ritorno degli scappati”, stabilite più di vent’anni prima, o del riaffacciarsi del ruolo predominante della Sicilia nel traffico internazionale di stupefacenti. Questi sono solo i fattori scatenanti. Infatti le rivalità sono profonde dentro l’organizzazione. Le cause risalgono a decine di anni prima; non sono altro che la prosecuzione in forma diversa della seconda guerra di mafia. Altre cose ancora dipendono dal come reagire alle iniziative di contrasto all’organizzazione provenienti dalla magistratura e dalle forze dell’ordine, che hanno decimato l’organizzazione militare e non di Cosa nostra. «Su questo punto, in particolare, si contrappongono diverse ideologie. C’è chi vuole tentare ancora una volta la carta dell’intimidazione, se non addirittura dell’attentato eccellente, seguendo la strategia di Riina». Le intercettazioni e le testimonianze alla base del processo Gotha tra Rotolo e i suoi alleati dimostrano che questi aveva tutte le intenzioni di innescare la guerra. «Con la guerra si deve risolvere la lotta per la successione al vertice tra il boss di Pagliarelli e Lo Piccolo», scrivono i magistrati. E i vertici sono ancora quelli da vent’anni. Totò Riina e basta. Il resto sono dettagli insignificanti dal punto di vista formale e sostanziale.
Sul mandamento di Porta Nuova si assiste a un blitz orchestrato sempre da Rotolo che estromette Giovanni Lipari (arrestato poi nella successiva operazione Perseo del 16 dicembre 2008 e morto suicida lo stesso in giorno mentre era in custodia, ndr) da una carica che gli spettava in favore di Nicola Ingarao (ucciso nel giugno 2007 su ordine di Salvatore Lo Piccolo, omicidio ordinato senza il consenso della Commissione) fido scudiero del capo. Mentre nel mandamento di San Lorenzo solo la famiglia capeggiata da Cinà e Girolamo Biondino stava con Rotolo, mentre le altre famiglie erano con Lo Piccolo, compresa quella di Carini, il cui reggente Vincenzo Pipitone aveva “giurato” due volte, prima di fronte a Rotolo e Cinà e poi davanti a Lo Piccolo». Un doppio giuramento, tanto per non sbagliare. Lo stesso clima, quindi, di venticinque anni prima alla vigilia della seconda guerra di mafia. «Allora, il golpe di Riina e Provenzano aveva scalzato dai posti di comando delle cosche di Palermo i boss di famiglie che rappresentavano la mafia da qualche generazione - ricostruiscono i magistrati -. Quei boss, nel “mondo” di Cosa nostra, erano considerati uomini di valore, in grado persino di rassicurare importanti esponenti delle istituzioni e del mondo dell’economia. Molti di loro erano morti. Altri erano stati costretti all’umiliante esilio. Ora c’è una nuova generazione di protagonisti: Nicola Mandalà, Gianni Nicchi, Sandro Mannino, Giuseppe Salvatore Riina, Sandro Lo Piccolo. Tra loro ci sono anche i figli dei “perdenti”, come Giovanni Inzerillo figlio di Totuccio. I figli sono cresciuti. Hanno avuto il tempo di conoscere le questioni più spinose, di coltivare amicizie, di fare esperienze criminali. E hanno le energie e la rabbia per riprendersi ciò che gli era stato sottratto».
Fra le migliaia di pagine della sentenza del processo Gotha e sulle motivazioni degli ordini di cattura dell’operazione Perseo, vi sono chiare tracce dei due latitanti “di rango” Domenico Raccuglia e Matteo Messina Denaro. Sono probabilmente loro “i duellanti”, se non per la scalata al comando della Commissione certamente per sedere accanto all’erede di Riina come consiglieri. Hanno l’età, la competenza, i mezzi, l’autorevolezza per assumere questo ruolo. Messina Denaro è già visibile, attivo, fa politica e affari: lui nella Commissione già c’è in rappresentanza di Trapani e provincia. Di lui si parla nelle intercettazioni. Emerge il suo ruolo di “ispiratore” del tentativo di creare una nuova Commissione che superi Riina, anche se gradualmente nel tempo. Lui è l’ultimo superstite di rango di una certa Cosa nostra, lo stratega delle ultime fasi compulsive della strategia stragista di Riina e Bagarella. Le carte le ha, eccome. Inoltre nell’ultimo anno si sta muovendo con meno spregiudicatezza. È maturo.
Del boss di Altofonte, Raccuglia, invece si parla poco, ma quando esce fuori il nome del “veterinario” tremano le vene ai polsi. Leggendo le intercettazioni si capisce che chi parla lo teme, ne ha paura. Raccuglia ha un modo tutto suo per comunicare: le armi. Parole poche se non nessuna. È invisibile non solo alle forze dell’ordine ma anche agli altri mafiosi, e ha consolidato il suo potere nel territorio di Partinico, Borgetto e comuni limitrofi. Lo scontro con i Lo Piccolo lo ha visto vincente. Quando è partito il tentativo di Sandro Lo Piccolo, Raccuglia ha bloccato, in armi, l’avanzata dei due ambiziosi boss.
In una delle intercettazioni ambientali che hanno portato alla serie di arresti fra due esponenti di Cosa nostra, Paolo Bellino e Domenico Caruso, al centro del tentativo di ricostruzione della Commissione, la figura del boss di Altofonte sembra essere determinante per ogni possibile accordo. Nel colloquio gli interlocutori elogiano il latitante Raccuglia Domenico: «Minchia persona d’oro!». Bellino dichiara di aver incontrato il latitante che gli avrebbe manifestato il suo rammarico perché Badagliaccia (altro mafioso dello schieramento più scettico al tentativo di riorganizzazione, ndr) non aveva ancora riconosciuto la sua autorità. Nella parte conclusiva del dialogo Caruso fa riferimento a un progetto di riorganizzazione, da parte di Messina Denaro e di alcune famiglie mafiose di Palermo in contrapposizione al gruppo dei Lo Piccolo, sostenendo che anche il sodalizio mafioso di Borgetto (probabile sede della latitanza di Raccuglia e comunque sotto suo totale controllo) aveva assicurato la sua adesione: «Intanto la palombella è arrivata dove doveva arrivare, ritornò, no dice che per ora la cosa è troppo delicata… dobbiamo vedere se possiamo organizzare di qua… no, minchia non è possibile, con tutto questo apparato che c’è da portarsi d’appresso, no! Vogliono, questi del Borgetto, vogliono fare, lo vogliono fare scendere… se scendono quelli, ti ricordi il L’Ora (storico giornale siciliano, ndr) che tu lo aprivi il pomeriggio, che ce n’erano uno, due, tre, quattro morti». Uno due tre quattro morti ogni giorno come ai tempi della guerra dei Corleonesi. Se scendono quelli di Borgetto, ovvero gli uomini di Domenico Raccuglia. In questo momento Raccuglia, se vogliamo azzardare un confronto, si trova in una situazione analoga a quella di Riina alla fine degli anni Settanta. Ha il controllo del suo territorio e di fatto non risponde pienamente, qui, alla Commissione. Ha uomini e capacità militare, come ha ampiamente dimostrato sul campo. Ha autorevolezza e un passato da killer formato alla scuola di Leoluca Bagarella, e quindi ha rispetto e relazioni con il gruppo di potere di Corleone. Forse addirittura di più di Lo Bue, che ha in mano pro tempore il mandamento che fu prima di Liggio e poi di Riina. L’incognita è se deciderà di fare da sé e provare a fare il salto di qualità o affiderà il suo braccio a qualcuno, a un erede designato da Totò Riina, per rimettere ordine a Cosa nostra. Quello di domani, ora che lo Stato ha spazzato via gran parte dei potenziali rivali a Palermo, sarà l’ordine di Riina o quello di Raccuglia?