Come dobbiamo reagire all’Isis?
par SiriaLibano
lunedì 21 dicembre 2015
(di Rami G. Khuri, per The Daily Star. Traduzione dall’inglese di Claudia Avolio).
Mai nella mia vita adulta ho sperimentato in Medio Oriente e nel mondo occidentale qualcosa di simile all’imperante separazione in atto oggi tra la minaccia dello Stato Islamico (Isis), che preoccupa tutta l’opinione pubblica e i governi, e l’evidente incapacità dei sistemi politici di trattare tale minaccia in modo coerente.
Questo è un problema ovunque, e intendo davvero ovunque nel mondo, che rende arabi, americani, europei, israeliani, russi, iraniani e tutti gli altri popoli coinvolti, dei partner dello stesso livello in questo sorprendente esempio di incompetenza politico-strategica transcontinentale.
Prendiamo la prima pagina del New York Times di venerdì scorso come esempio sia di preoccupazione diffusa che di scarso progresso riguardo all’Isis.
C’erano diverse storie sull’ultimo attacco terrorista di matrice islamista in Mali; le conseguenze degli attacchi di Parigi e le reti Isis in Belgio; articoli di opinionisti su come rispondere alle minacce dell’Isis; una storia della strategia di Hillary Clinton per gestire l’Isis; un’altra sulle preoccupazioni della Russia relative ai rapporti crescenti dell’Isis nella regione caucasica.
E ancora: pezzi assortiti legati al dibattito in corso tra i governatori degli stati americani sul permettere o meno ai rifugiati siriani di stabilirsi nei loro stati; le idee dei bizzarri candidati presidenziali del Partito repubblicano sui musulmani che dovrebbero registrarsi negli Stati Uniti; poi un editoriale su come rispondere all’Isis e altre cose sparse. Ed è solo la prima pagina!
Questa attenzione spropositata nei confronti delle minacce terroristiche dell’Isis è tipica dello spazio pubblico americano che ho sperimentato direttamente negli ultimi due mesi passati nel Paese.
Molte tendenze diffuse sono evidenti nelle reazioni dell’opinione pubblica agli attacchi dell’Isis in varie nazioni e all’espansione del coinvolgimento militare americano in Siria e Iraq.
Un esempio rincuorante è che, a differenza del 2001, alcuni saggi, onesti e accurati giornalisti e analisti politici americani stanno rispondendo all’Isis in modo molto più coerente e maturo della società americana con quella sua reazione incoerente ed emotiva nei confronti di al Qaida.
Questa tendenza positiva resta purtroppo minoritaria. In generale, il sistema politico e la sfera pubblica – soprattutto il mondo della tv via cavo dominato dalla bassa qualità, dal sensazionalismo e da un certo razzismo della Fox e della CNN – sono definiti in gran parte da un miscuglio di cinque sentimenti preoccupanti:
Perplessità (“Perché noi in Occidente veniamo attaccati?); Ignoranza (“Chi sono queste persone e cosa vogliono?); Arroganza (“Solo la leadership e la forza militare americane possono liberare il mondo da questo flagello”); Militarismo (“Questa è la guerra della nostra generazione e il nostro destino nazionale e dobbiamo combatterli con le maniere forti laggiù prima che vengano negli Stati Uniti a distruggerci”); Emotività (“Dobbiamo restare forti, riaffermare i nostri valori, proteggere il nostro territorio, difendere la libertà, caricare i fucili, proteggere i nostri figli, alzarci ogni giorno e mangiare i nostri cereali Cheerios senza arrenderci alla loro diabolica intimidazione, e che Dio ci benedica perché noi siamo la più grande nazione mai esistita sulla terra”).
Ciascuno di questi atteggiamenti è abbastanza negativo di per sé, ma combinati tutti insieme sono una catastrofe. Infatti, la “guerra globale contro il terrore” a guida americana in risposta ad al Qaida sin dal finire degli anni ’90 è stato un continuo fallimento.
Anche se dal 2001 gli USA sono stati ampiamente al riparo da grandi attacchi terroristici, il resto del mondo, e in particolare il Medio Oriente, è diventato un buco infernale di escalation di violenza che perlopiù sfugge al controllo degli stati sovrani e che per questo è quasi impossibile fermare.
Per godere di sostegno militare e finanziario da parte degli USA e delle petromonarchie, la maggior parte degli stati arabi ha interrotto ogni seria riforma politica o economica. Questo ha peggiorato le condizioni di vita di gran parte dei cittadini e dunque esteso e reso più profondo il bacino di aspiranti reclute per gruppi come Isis e al Qaida.
Devo riconoscere, però, che c’è una nuova, importante tendenza tra gli americani di tutti gli ambienti − leader politici di vecchia data a Washington che un tempo avevano plasmato la maldestra guerra al terrorismo, gruppi di esperti e funzionari di fondazioni finanziatrici, professori, studenti, giornalisti e membri dell’opinione pubblica − con i quali ho avuto molte discussioni in questi mesi.
Il loro è un atteggiamento più umile e curioso che pone domande come: Noi negli Stati Uniti stiamo facendo la cosa giusta in Medio Oriente? La gente laggiù vuole che continuiamo? Cosa sanno fare gli altri meglio di noi? Come possiamo rispondere al di là degli attacchi militari? Perché dobbiamo tornare indietro e ricombattere dopo decenni di lotta laggiù?
Tutto questo riflette gli aspetti migliori della cultura americana, che chiede perché le cose vanno male e perché obiettivi legittimi come la lotta al terrorismo non vengano raggiunti.
Questo atteggiamento non trova spazio nella Fox o nella CNN, non si riflette in gran parte dei personaggi pubblici della vita politica, né di certo nel circo ambulante dei repubblicani che aspirano alla presidenza. Si tratta, però, del flusso dominante di commenti e domande con cui ho avuto a che fare durante i miei molti impegni negli USA degli ultimi due mesi, sia in pubblico che in privato.
Tutti chiedono: “Cosa possono e dovrebbero fare gli Stati Uniti in modo più efficace per sconfiggere l’Isis?”.
Nessuno con cui ho parlato o di cui ho letto qualcosa fornisce una risposta davvero convincente a questa domanda cruciale. Neppure io pretendo di avere la risposta. Ma nel mio prossimo editoriale, basato sulle mie lunghe discussioni negli USA con americani ragionevoli e non solo, suggerirò alcuni princìpi che dovremmo applicare per avere un’opportunità maggiore di ritrovarci con risposte e suggerimenti concreti.
Ciò ci richiederà di lavorare insieme tra continenti con umiltà, realismo, coraggio e razionalità, mettendo da parte la cassetta degli attrezzi del mondo dei fumetti che l’Occidente, capeggiato dagli USA, e gli stati arabi leader hanno usato per guidarci tutti come bestiame fino a questo momento, in cui le nostre terre arabe sono intrise di sangue, guerre e rifugiati, e le prime pagine dei grandi giornali del mondo riflettono ambiti corrispondenti di morte, paura e perplessità. (The Daily Star, 21 novembre 2015)