Classicità universale, barbarie locale

par Daniel di Schuler
martedì 16 settembre 2014

Il sogno americano e gli incubi delle nuova Europa.

Non di pietre e marmi è fatta la più preziosa eredità romana, ma dell'idea che tutti, indipendentemente dalla propria madre lingua e dalle proprie tradizioni, possano diventare cittadini dell'Impero. In Grecia scoccò la prima scintilla della ragione, ma è Roma che innalza questa torcia per illuminare ogni angolo del mondo conosciuto. Un'aspirazione all'universale, che supera il particolarismo della polis, dà sostanza politica all'idea di koine, e completa quello che potremmo definire il programma classico della civiltà europea. Programma che gli Umanisti ripresero e che sottende il Rinascimento; universalità dell'umana ragione che è al cuore dell'ultimo, vivissimo bagliore, della classicità europea: dell'Illuminismo che ispirò anche la rivoluzione americana e gli estensori della Costituzione degli Stati Uniti. Inteso questo, ha perfettamente senso parlare di America Romana; vedere negli Stati Uniti, pur con tutte le loro contraddizioni ed i loro problemi, gli unici eredi rimasti dell'Europa classica. 

Tutt'altro, invece, è il mosaico di stati in cui è suddiviso il nostro continente. Barbari, anti-classici, anti-europei, sono gli ideali che ne hanno ispirato la nascita: quelli dei nazionalismi romantici, che non conoscono la luce d'Apollo, ma i miti primitivi del sangue e della razza; che non si rivolgono alla ragione, ma alle viscere dei popoli. Nazionalismi che ci sono costati decine di milioni di morti, in due guerre mondiali ed infiniti conflitti locali, ed hanno segnato, ben prima dell'arrivo della globalizzazione, la fine del nostro primato. Tribalismi come quelli che ancora ispirano chi vorrebbe tracciare nuovi confini: indipendentisti che, grattata via la sottile patina del politicamente corretto, ragionano come Hutu o Tutsi; localisti che non hanno, in realtà, altro ideale che la difesa della roba. Indossano costumi e sventolano bandiere medioevali; sono davvero i figli dei nostri secoli più bui. Spaventati da un mondo in cui non si riconoscono, fuggono nel fitto della foresta dei propri pregiudizi; immaginano di potersi salvare dalla barbarie rinchiudendosi, alzano mura sempre più alte. Non capiscono di essere loro, i veri nuovi barbari. Si proclamano fieramente europei; non sanno che con ideali come i loro l'Europa non sarebbe mai esistita. Abitata da sparse tribù, guidate dal capo e dallo sciamano, non sarebbe mai stata altro che una periferia boscosa dell'Asia.

P.S.: A quale data far risalire l'inizio di questi nuovi secoli bui? Una buona scelta potrebbe essere il 14 ottobre 1806, quando Napoleone, a Jena, distrusse l'esercito prussiano. Una sconfitta che spinse Fichte a tenere i Discorsi alla nazione tedesca. Era fatta di cultura, lingua e tradizioni, la patria ideale cui si rivolgeva il filosofo. Purtroppo parlò anche di purezza della razza. Quasi una nota a margine, dentro una serie di dissertazioni che avevano per tema centrale il rinnovamento del sistema educativo. Un spiraglio da cui sono però penetrati, nel dibattito politico europeo, i peggiori mostri. Gli stessi che agitano dietro gli apparentemente nobili concetti di autodeterminazione e rispetto delle identità locali. Gli stessi che hanno oggi fatto propri degli apprendisti stregoni che al coltissimo Fichte avrebbero semplicemente fatto ribrezzo.

 

Logo: Horace Vernet, Napoleone alla battaglia di Jena


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