Cinque anni fa il rogo nella ThyssenKrupp di Torino

par Sara Pulvirenti
sabato 8 dicembre 2012

“Non voglio morire! Non voglio morireeeeeeee!” Queste le parole pronunciate da un operaio mentre stava morendo nell’acciaieria ThyssenKrupp di Torino, nel rogo che nella notte del 6 dicembre del 2007 uccise sette uomini. Parole gridate mentre al telefono un collega chiamava i soccorsi: “Pronto sono della ThyssenKrupp (..) ci sono 3/4 ragazzi bruciati (…) si muovono, abbiamo cercato di spegnerli (..)”. Parole che fanno rabbrividire e che soprattutto fanno immaginare scene inimmaginabili che nessuno vorrebbe mai vedere né tantomeno vivere. Parole che restano nella mente ma soprattutto nel cuore.

Di quella notte di 5 anni fa, oggi sembra essere rimasto poco. Si è parlato dell’iter giudiziario (proprio in questi giorni è partito il processo d’appello), della necessità di potenziare e fare rispettare le norme sulla sicurezza sul lavoro ma, come spesso accade, questi argomenti, seppur importanti, hanno lasciato cadere nel dimenticatoio l’aspetto più umano: le vittime, 7 uomini, con storie diverse che hanno lasciato su questa Terra affetti, progetti idee. Antonio, Roberto, Angelo, Bruno, Rocco, Rosario e Giuseppe, questi i loro nomi.

I media più “importanti” mercoledì, anniversario della tragedia, hanno inspiegabilmente ed in modo imperdonabile taciuto, dimenticando l’intero accaduto. Non un servizio sui principali telegiornali ed a mala pena qualche articolo sulla cronaca locale di alcuni quotidiani. Sembra incredibile se si ripensa al clamore dei giorni subito dopo quel terribile 6 dicembre: servizi su servizi, interviste, ricordi, ricostruzioni e poi però, come spesso accade con la cronaca nera, il vuoto più assordante. È infatti consuetudine in questi casi che la notizia venga urlata quasi come se si sapesse che la sua durata fosse limitata e si dovesse per questo alzare la voce per farla arrivare, almeno per poco tempo, il più lontano possibile.

Dopo cinque anni, di quelle sette vite rimangono gli affetti ed è davvero impressionante ascoltare le loro poche parole pronunciate alla prima udienza del processo di appello a Torino. Su tutte quelle di Rosetta, la vedova del capoturno Rocco Marzo: “Il dolore aumenta sempre ma noi sopravviviamo!”. Parole atroci. Parole di chi si trova a dovere andare avanti nonostante tutto.

Ed è normale ascoltare i fratelli, le sorelle, i padri e le madri sussurrare ricordi richiedendo il rispetto della memoria dei loro cari. È umano infatti affidarsi ai ricordi: lo è ancora di più quando il viaggio della vita viene interrotto drasticamente, senza un motivo e magari per colpa di qualcuno. In questo caso si chiede giustizia, si lotta per arrivare alla individuazione dei colpevoli ma, raggiunto l’ambito traguardo, restano solo i ricordi e la volontà di fare sì che i “diari” di quelle vite non vengano bruciati così come è stato fatto con i corpi di chi li stava scrivendo.


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