Cinesi illegali a Prato. Lo sapevano tutti
par Samanta Di Persio
martedì 3 dicembre 2013
La giornalista Giannini, del programma Report, nel 2007 ha realizzato un servizio dal titolo “Schiavi del lusso”.
La Giannini metteva in evidenza lo sfruttamento dei grandi stilisti: borse che in boutique vengono vendute a 440 euro sono costate, con manodopera a nero, 28 euro. I cinesi di Prato realizzavano già da anni capi per grandi firme e la giornalista commenta: “Gli operai vivono, mangiano e lavorano tutti insieme. Lui paga il vitto e l’alloggio, per averli sempre a disposizione e per pagarli poco.” In un paese normale il giorno dopo la Finanza avrebbe sequestro tutto e qualcuno sarebbe andato in galera. Ma forse da questo business ci guadagnano in molti, troppi e quindi imprenditori, istituzioni, locatori e/o venditori di capannoni hanno fatto e fanno finta di niente.
Del resto, come si evince dal servizio, nel 2007 le aziende cinesi erano 3000, cresciute esponenzialmente a partire dagli inizi degli anni ’90, i cinesi residenti erano 25 mila. Ma si pensava che ve ne fossero migliaia che vivevano in clandestinità arruolati come manodopera, per lo più nel settore delle confezioni tessili. Due anni dopo Report torna sull’argomento e manda in onda la polemica di Santo Versace, fratello degli stilisti Versace, nella trasmissione Exit dove attacca Giuseppina Virgili, un’imprenditrice del settore tessile di Prato, che denuncia la concorrenza sleale delle ditte cinesi. Quindi, un’altra volta, l’Italia intera viene a conoscenza dell’esistenza di un’economia parallela, quella cinese, che viene sfruttata da qualcuno. Giuseppina Virgili conosce bene la realtà, tanto da arrivare a gesti estremi per poter mandare avanti la sua piccola azienda artigianale: sciopero della fame, mettere in vendita un rene.
“Tutti parlano di delocalizzazione, di come portare la produzione all’estero, invece noi ce la siamo ritrovata dentro casa. – spiega Giuseppina – Ci siamo ritrovati dei concorrenti che lavorano senza regole e mettono sul mercato dei prodotti, seppur scadenti, a prezzi irrisori. I sindacati non hanno mai fatto nulla, quando mi è stato possibile confrontarmi con loro ho detto: «Parlate tanto di tutela dell’operaio, ma non tutelate il suo datore di lavoro che non è lo sfruttatore, il padrone nelle piccole imprese. Per noi i dipendenti sono un patrimonio, conosciamo il loro nome e cognome, le loro storie, sono amici. Molti di noi quando non riescono a tirare avanti l’azienda e sanno di avere in mano la vita di tante altre persone che si sono fidate, sentono di tradirli».
I sindacati non capiscono che siamo sulla stessa barca: i cinesi hanno portato via il lavoro all’imprenditore e di conseguenza al dipendente. Mi hanno risposto sempre che è un problema nazionale, che loro non possono fare nulla, fenomeno difficile da smantellare. Alle sette di sera a Prato si può vedere una città che comincia a lavorare, insegne tutte cinesi, dove lavorano, mangiano, vivono, non sembra di essere nel cuore della Toscana. Sono andata a fare un giro in queste fabbriche, mi sono spacciata per un buyer. C’è da dire che loro sono molto scettici, quando sono riuscita a convincerli mi hanno proposto maglie che vendevano a un euro e cinquanta centesimi, cappotti a otto euro, pantaloni a cinque, tutto con la targhetta Made in Italy. Questi prezzi non sono possibili, per noi che lavoriamo in Italia e rispettiamo le regole. Ho chiesto: «Mi fate la fattura?». Mi hanno risposto: «Come vuole». Allora ho domandato: «Se invece non la voglio, mi fate uno sconto?» Hanno ribattuto: «No, per noi è uguale». O noi siamo meno bravi e non riusciamo a lavorare correttamente o c’è qualcosa che non funziona. Infatti le loro attività hanno durata di un anno, poi cambiano nominativo perché in Italia se chiudi entro dodici mesi non sei soggetto a controlli. Loro conoscono le nostre leggi, meglio di noi. Ogni tanto la Guardia di Finanza fa qualche blitz, ma è solo fumo negli occhi. Io non ce l’ho con i cinesi, loro fanno quello che noi gli permettiamo di fare. Sicuramente fanno comodo ai poteri forti: le grandi firme si avvalgono della loro manodopera, le banche hanno il loro guadagno perché sono gli unici a portare soldi."
"L’anno scorso la Banca d’Italia aveva calcolato che solo nel 2011 attraverso i transfer money erano andati in Cina oltre 500 milioni di euro. Volendo ci sarebbero molte cose da fare, chissà perché non vengono fatte? Queste sono le situazioni da smantellare, dobbiamo ritrovare il nostro orgoglio di essere italiani. Siamo qui che cerchiamo di fare le cose corrette, creiamo ricchezza e dobbiamo essere mortificati da un sistema che non ci rende giustizia; stiamo perdendo la nostra identità come Nazione.”
In realtà i soldi che i cinesi dall’Italia mandano all’estero sono molti di più: miliardi. Giuseppina ha dovuto chiudere la sua impresa, come tanti altri piccoli imprenditori, questo è il destino di chi paga le tasse, di chi è in regola. Dopo l’incendio, dopo la morte dei sette operai, cosa cambierà? Chi applicherà il concetto che le regole devono essere uguali per tutti? Politica, sindacati, associazioni di categoria, grandi firme, si sentiranno responsabili della tragedia?