Ciancimino e il doppiopesismo

par dAW
sabato 11 dicembre 2010

Opportunamente, alcuni osservatori avevano invitato i cronisti giudiziari e i magistrati a non trasformare in un sussiegoso âstoricoâ della mafia e dellâanti-mafia Massimo Ciancimino.

Il figlio di don Vito è adesso formalmente indagato dagli scrupolosi magistrati della Procura di Caltanisetta, guidata da Sergio Lari, allievo e amico di Falcone, per calunnia nei confronti del Direttore dei Servizi segreti, Gianni De Gennaro, e di Lorenzo Narracci, funzionario dell’Agenzia informazioni e sicurezza interna (ex Sisde). Inoltre, a Ciancimino junior, che si è avvalso della facoltà di non rispondere davanti alle toghe nissene, sono stati contestati il favoreggiamento nei confronti del misterioso “Signor Franco”, presunto anello di congiunzione tra lo Stato e Cosa nostra, secondo le dichiarazioni rese dal testimone, e la violazione del segreto istruttorio, nei colloqui, intercettati, con alcuni giornalisti.

Di recente, la vice-presidente dei deputati del PDL, Jole Santelli, estimatrice di Gianni De Gennaro, mi ha detto: “Se Giovanni Falcone non fosse stato ucciso, a Capaci, ritengo che avrebbero “mascariato” anche lui!”. Analisi condivisibili.

Ma, a proposito di “doppiopesismo” mediatico e giudiziario, sino a quando il figlio dell’ex primo cittadino - democristiano e mafioso - di Palermo ha (stra)parlato di Silvio Berlusconi e di Marcello dell’Utribenchè i giudici del processo di Appello del senatore del PDL non gli abbiano creduto: collusi anche loro? - veniva considerato un super-teste. Insomma, Massimo era ossequiato come un personaggio fondamentale, addirittura, per ricostruire la storia, politica, criminale e giudiziaria, del Paese e degno del massimo rispetto. E, ça va sans dire, veniva portato come un santino nei processoni in TV – senza gli “imputati” e i loro difensori – di Travaglio, “Sant’oro” e Ruotolo, sulle paginate dei giornali giustizialisti e dei molto venduti libri investigativi e di denuncia.

Ma, dopo che Ciancimino junior ha coinvolto nelle presunte trattative dei primi anni 90, tra apparati dello Stato e il boss mafioso Provenzano, l’ex capo della Polizia, Gianni De Gennaro – notoriamente vicino a Violante, al sociologo progressista, Pino Arlacchi, e all’ex procuratore di Palermo, Caselli, dai tempi in cui, pur avversato dal Capo della polizia, Vincenzo Parisi, divenne il Direttore della DIA e fu definito da Giuliano Ferrara il “Gran Signore dei pentiti” – abbiamo notato un repentino cambiamento.

Nelle corrispondenze dei giornali e delle TV da Palermo e nelle analisi dei mafiologi, in servizio permanente effettivo, l’ambiguo rampollo del protagonista del sacco edilizio di Palermo è tornato a essere rappresentato come una persona piuttosto losca e reticente, un teste contraddittorio e da prendere con le pinze. Soprattutto dopo il recente suo incontro, a Bologna, con un indagato per ‘ndrangheta, allo scopo di consegnargli un gruzzolone 100 mila euro, in contanti, e di incassare titoli di credito per 70 mila euro.

E, dunque, non sarebbe stato meglio, se tutti avessero convenuto, da anni, sui dubbi, espressi da pochi osservatori, tra cui – si parva licet - lo scrivente, sull’ambigua figura di questo giovane e ricco signore siciliano? Che proviene da un mondo torbido ed è alla affannosa ricerca di una credibilità, a lui molto utile, per confondere le acque e per tentare di recuperare gran parte del “tesorone” di don Vito, che l’ ex deputato dalemiano, Peppino Caldarola, ha bollato, non a torto, come “una delle figure politiche più spregevoli dell’ Italia moderna”.

Di recente, alla luce della testimonianza, resa all’Anti-mafia dopo… soli 17 anni da Giovanni Conso, Guardasigilli del governo sostenuto dal PDS e presieduto da Ciampi, nel 1993 – il giurista ha riferito di aver tolto 300 detenuti, tra cui molti mafiosi, dal carcere duro, previsto dall’articolo 41 bis – è stato assestato un duro colpo ad un “teorema” molto accreditato sui media. Secondo tale ipotesi, gli interlocutori del ricatto mafioso – attuato con il “papello”,che sarebbe stato fatto pervenire, tramite i Ciancimino, da Provenzano ai responsabili delle istituzioni - sarebbero stati i dirigenti del nuovo partito di Berlusconi e dell’Utri, che in quella fase si stava organizzando, per contrastare la “gioiosa macchina da guerra”, guidata dall’allora segretario del PDS, Occhetto, che poi perse le elezioni del 1994, che videro il trionfo, imprevisto, del Cavaliere.

E allora chi erano, realmente, gli interlocutori politici della trattativa, ammesso che questa “trattativa” ci sia mai stata? Un personaggio-chiave di quel drammatico periodo fu Luciano Violante, allora Presidente della Commissione parlamentare Anti-mafia e leader, influente e temutissimo, del “partito dei giudici” anti-PSI e anti-DC. Da tempo, l’ex ministro andreottiano, Cirino Pomicino, e altri commentatori chiedono a Violante di svelare le ragioni per cui, negli ultimi mesi del 1992, prima accolse e poi respinse la disponibilità a farsi interrogare, manifestata da don Vito Ciancimino, allora detenuto a Rebibbia.

Cirino Pomicino, e non solo lui, è tormentato dal sospetto che quell’interrogatorio, poi saltato, avrebbe svelato molte verità e, probabilmente, avrebbe potuto evitare le bombe e i morti del 1993. Che finirono, ma solo dopo il “niet” di Conso (deciso in solitudine, come lui afferma?) al rinnovo del “41 bis” ai mafiosi e l’ inserimento nei programmi di protezione dei collaboratori di giustizia di centinaia di boss e picciotti. In 10 anni, ben 4 mila appartenenti alla criminalità organizzata vennero “riciclati”, con una nuova identità e non poco denaro a disposizione.

Intese Stato-mafia, teoremi che vacillano, figli di boss, che scrivono lucrosi libroni, ovviamente pubblicati dal “Caimano mafioso” di Arcore, e straparlano in tv, “mascariando” persino un ex Capo della Polizia, De Gennaro, e il Generale dell’Arma dei Carabinieri, Mario Mori, che ammanettò Riina: per venire a capo di tutti questi misteri, finalmente, i governanti e i capi delle forze dell’ordine e dei servizi dei primi anni 90 dovrebbero essere chiamati a dire ciò che sanno, davanti a una Commissione parlamentare d’inchiesta. Che dovrebbe aprire un’ indagine bipartisan, finalmente seria e approfondita, non accontentandosi di generiche esternazioni, di allusioni e di tardivi, e parziali, ricordi.

Altrimenti, non verranno diradati i polveroni e non soltanto i familiari delle vittime delle stragi, ma tutto il Paese continuerà a brancolare nel buio. E verranno insabbiate le responsabilità politiche, ministeriali e di consistenti settori “deviati” delle greche e degli ermellini.


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