Chi vince sempre in Italia? La società bloccata, il "fattore F" e la sorte del governo Monti

par Daniel di Schuler
mercoledì 1 febbraio 2012

La "questione morale" nel nostro Paese non è mai stata risolta

Trent’anni fa usciva il libro Chi vincerà in Italia? La democrazia bloccata, i comunisti e il fattore K” in cui Alberto Ronchey spiegava l’impossibilità dell’alternanza in un paese come il nostro che, pur essendo membro fondamentale dell’Alleanza Atlantica, aveva nel PCI il proprio maggior partito d’opposizione.

Dieci anni dopo quando, scomparsa la minaccia sovietica, “mani pulite” ha messo in luce la struttura clientelare del sistema di potere che si era costituito in Italia, è stato facile individuarne la causa in quel deficit di democrazia dovuto a fattori esterni.

Il potere corrompe, ci siamo detti, e restare costantemente al potere per mezzo secolo, come era accaduto al blocco di partiti che, quasi per definizione, vinceva sempre le nostre lezioni politiche, non può che portare ad un sistema dominato dai mariuoli.

Oggi, a vent’anni quasi esatti di distanza dall’arresto di Mario Chiesa, mentre le classifiche internazionali, confermate dall’esperienza quotidiana di tutti noi, continuano a segnalare l’Italia come uno dei più corrotti tra i paesi sviluppati, possiamo dire che la nostra analisi d’allora era sbagliata, in buona sostanza, e che le cause del degrado morale della nostra vita pubblica non si esaurivano con la mancanza di un’alternanza di partiti nel governo centrale.

Qualche dubbio ci sarebbe potuto venire già nel 1992.

Mentre la sua società sembrava in via di rapido cambiamento, mentre frange estremiste arrivano ad impugnare la pistola nell’illusione di poter ottenere con la forza quel che sembrava non potessero avere con la politica, l’Italia aveva infatti trovato un modo per dare adeguata rappresentanza, e una corrispettiva fetta di potere, al Partito Comunista per cui votava un terzo dei suoi cittadini. Il PCI, che pure era arrivato ad appoggiare esplicitamente il “governo monocolore di Solidarietà Nazionale” formato da Andreotti nel 1976, al culmine della stagione del “compromesso storico”, non aveva ministri né sottosegretari, ma governava direttamente, e in genere bene a dire il vero, ampie zone del territorio, mentre suoi uomini erano presenti nelle direzioni di tutte o quasi le aziende pubbliche, grandi e piccole, e di tutti o quasi gli enti.

Impossibile pensare che il verminaio scoperchiato da mani pulite si fosse sviluppato senza la sua complicità o, quantomeno, il suo silenzio; avesse voluto denunciare quel che non poteva non vedere, avrebbe avuto tutti i mezzi per farlo, a cominciare da una rete RAI a propria completa disposizione.

La nostra politica non era fatta di mele marce (i partiti di governo) e di mele sane (il gran partito dell’opposizione); era, certo con differenze tra le varie forze che la componevano, tutta marcia. Una politica che non sarebbe mai potuta crescere, fattore K o no, sul corpo di una società sana, ma che era fiorita in una comunità nazionale ridotta, già allora, forse da sempre, a somma di individui ognuno con il proprio minuto interesse come unico, vero, ideale.

Ci accorgiamo oggi che vale per “mani pulite” quel che valse per la Resistenza; che non può l’eroismo di pochi, comunque di una minoranza, riscattare la vigliacca acquiescenza di quasi tutti ad un potere corrotto; che addirittura può essere controproducente se, fornendole dei facili alibi (i fascisti arrivati da Marte come i socialisti o chi volete eletti da chissà chi), consente ad una società di dimenticare le proprie responsabilità e continuare, imperterrita, nei propri comportamenti più distruttivi.

Oggi, guardando spassionatamente allo stato della nostra politica, osservando la predatoria voracità degli incompetenti che abbiamo eletto a sostituire una parte della nostra classe dirigente, dobbiamo avere il coraggio di ammettere quale sia stata la reazione di tanti italiani a mani pulite; come alla fine del fascismo, scomparsi o mutata pelle i vecchi, sono semplicemente andati a cercarsi dei nuovi santi in paradiso. In un paese dove il 70% dei suoi cittadini, secondo alcuni studi, ha trovato lavoro grazie alla rete delle relazioni famigliari, hanno mendicato presso il nuovo potere, per sé stessi, per le proprie imprese o i propri cari, i favori, le raccomandazioni, le spintarelle e gli aiuti che erano già soliti chiedere a quello (non a caso spesso rappresentato, a livello locale, dalle stesse persone) che lo aveva preceduto.

Spogliati delle ultime tracce di pudore contadino, dimenticate le minime virtù civiche (il campanilismo, se volete) ereditate dall’età comunale, lo hanno fatto senza remore; non più trattenuti, nei loro comportamenti, da una morale cattolica di cui si sono liberati e privi dei riferimenti di un’etica laica che nel nostro paese non ha mai attecchito, sono stati prontissimi a tornare ad umiliarsi e a vendersi in modi ancora più abbietti e degradanti che nel passato.

Viene da chiedersi, vedendo la nostra società sempre più ingessata (tanto stagnante come l’economia che ha generato e che la genera, in un processo di azione e retroazione), dove la nascita pare ormai essere tutto quel che conta, se non sia proprio il fattore F la causa di tutti i nostri mali. La F del “tengo famiglia” che tanti nostri connazionali ripetono, in tutti gli accenti dialettali, per giustificare, prima di tutto a se stessi, le loro debolezze.

Debolezze e pavidità individuali che si compongono per dar vita ad un paese sommamente ingiusto, patria del privilegio e del favore, pronto a offrire protezione ai codardi , ma che, e non è storia solo d’oggi, chiude le proprie porte in faccia a chiunque voglia cambiare lo stato delle cose.

Anche per questo, per quanto minime possano essere le sue liberalizzazioni, temo che Monti, per dirla col bardo, “sia destinato a confinata sorte”.


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