"Chi ha paura muore ogni giorno", il teatro civile di Giuseppe Ayala
par paola russo
mercoledì 16 novembre 2011
Il racconto del giudice Giuseppe Ayala: uno spettacolo toccante in un teatro semivuoto.
L’attesa dell’apertura del sipario per lo spettacolo “Chi ha paura muore ogni giorno. I miei anni con Falcone e Borsellino” di e con Giuseppe Ayala, è stata scandita da un certo imbarazzo per il teatro desolatamente vuoto per metà e dalla curiosità per ciò che sarebbe avvenuto di lì a poco sul palco.
Riguardo al primo punto, poco da dire: scarsa informazione sulla serata e molto più sull’evento della mattina del 25 a cui sono state invitate le scuole, ma certo una eloquente dimostrazione di come la città sonnecchi avvolta dal clima autunnale e dalla paffuta considerazione di non avere necessità di riflettere su ciò che è la storia trascorsa. La curiosità del pubblico, invece, si è risolta in applausi a scena aperta per l’evidente partecipazione emotiva al racconto di Ayala e nel gesto dignitosissimo di alzarsi in piedi in segno di rispetto alla fine della serata.
Giuseppe Ayala, uomo di legge e di politica, è riuscito nell’intento di non perdersi in lusinghe d’artista per mettere in scena dieci anni d’Italia. Dal 1982 al 1992, in Sicilia come nel resto del Paese, si è vissuta un’altra fetta di storia patria che, per il solo fatto di essere passata per la nostra memoria sotto le mentite spoglie di un video televisivo, pare avere meno dignità per essere compresa anche nei suoi meccanismi più reconditi. Ayala parte dalla fine per definire l’assunto principale di tutta la narrazione: “la lotta alla mafia è stata fermata, non nel ’92 con le stragi di Falcone e Borsellino, ma già prima da “pezzi” dello Stato: i due giudici non erano eroi, ma uomini con senso del dovere e attrezzati a fare il loro lavoro.. erano semplicemente uomini con le palle”.
Esordisce proprio così, dopo le scene della cronaca della strage di Capaci. C’è una pacata veemenza nel suo stare sul palcoscenico e nella voce che cede alle inflessioni dolci del siciliano: pare una caratteristica, questa intensità trattenuta, dettata dall’abitudine ad addomesticare il dolore. Usa l’ironia, “la nostra fedele compagna di viaggio, visto che non dovevamo piangere”, neanche tanto amara, come necessità per vivere fino in fondo anche i drammi con la serenità di chi sa di essere dalla parte giusta.
Parla del “privilegio di aver dato ai suoi figli l’amicizia di un uomo come Falcone” e più tardi sottolinea con fermezza e un gesto risoluto delle mani che non lo sfiorò mai il pensiero di astenersi dal suo ruolo scomodo di Pubblico Ministero perché padre di tre bambini. Racconta dell’amicizia che lo legava a Falcone e Borsellino come un fatto giocoso, una coincidenza professionale che diventerà un legame inossidabile, un confronto serrato sia sul campo di battaglia che nella vita privata.
Ayala conserva per circa due ore la compostezza dell’ospite a cena che intrattiene i commensali senza tediarli, parlando dei “fatti”, come li chiama lui, che stanno al di là di ciò che tutti conoscono, sorridendo delle apparenze, svelando i retroscena, non lesinando le responsabilità eppure senza mai indulgere nell’ingenua vendetta morale. Si siede, attraversa la scena, si ferma in ascolto delle testimonianze documentarie, sceglie la penombra color arancio per i momenti più intensi del suo dire e la piena luce quando vuole affermare con rigore professionale la nitidezza degli eventi.
Spiega con voce brillante l’innovazione del “metodo Falcone” nelle indagini di mafia, denuncia le accuse di colleghi e detrattori che i tre amici hanno ignorato o deriso forti della loro coesione di squadra, sottolinea la paura di ogni giorno sconfitta dall’idea che ognuno di loro portasse un pezzo di quella paura con sé per condividerla, insieme alla determinazione a sconfiggerla. Con sapiente arte scenica Ayala, a voce stentorea, elenca cifre: non delle vittime, ma dei superstiti. Le stragi sono ricordate per il numero delle vedove e degli orfani e la storia si svolge attraverso la perdita degli uomini che con lealtà garantivano i servizi di scorta, dei colleghi, dei più stretti collaboratori e degli amici.
L’alternarsi di immagini di repertorio con il suo spedito chiacchierare raggiungono l’obiettivo finale: cogliere il perché della resistenza attuale della mafia alle forze dello Stato, il perché delle stragi, il perché dell’apparente inutile sacrificio di tanti. Ayala dimostra come lo Stato sappia essere più forte di ogni organizzazione criminale, ne è un esempio la vittoria sulle Brigate Rosse, gruppo politico. “Non saper contrastare la mafia -denuncia- è indicativo di come questa abbia una struttura di potere che compartecipa al potere dello Stato da circa 150 anni, che la benevolenza nei confronti della mafia, la confusione di ruoli, determinano la legittimazione di poteri più o meno occulti che rendono lo Stato incapace di delegare la lotta alla mafia, non solo alle forze di polizia, ma soprattutto ai poteri istituzionali che invece restano a guardare.”
Ecco perché in tutti i processi, fino al “maxi processo” del 1986, la considerazione dello Stato italiano da parte dei mafiosi è sconcertante: sanno bene di non doverlo temere. La storia del maxi processo si sovrappone all’intuizione di Borsellino, uomo pragmatico e beffardo, che affermava: “fino a quando si celebrerà il processo noi avremo una assicurazione sulla vita.” Ayala molto semplicemente spiega come “la parte sana del Paese” poté garantire il loro lavoro certosino fino alla fine del maxi processo.
Successivamente, con la vittoria dei corleonesi nella ricostruzione della organizzazione criminale, furono riallacciati i rapporti con gli interlocutori politici e le forze sane del Paese non ebbero la forza di contrastarli oltre. “Lo Stato decise di fermare se stesso perché lo Stato la mafia ce l’ha dentro”. Nel 1992 l’epilogo. A distanza di venti anni dalla morte di Falcone e Borsellino, Ayala porta in giro per l’Italia la loro eredità professionale e civile attraverso la presa di coscienza della gravità del fenomeno mafioso:
“La verità più importante che voglio affermare è legata alla loro vita, al modo in cui hanno scelto giorno dopo giorno di essere esempio. Semplicemente vivendo da uomini che fanno il loro dovere.”
Sul palcoscenico quando Ayala va via resta un albero di magnolia come quella che ancora oggi, vicino al portone di casa Falcone, raccoglie fra i fiori i messaggi di speranza di uomini e donne che nello Stato non smettono di crederci. Anche Ayala, malgrado le accuse dirette, prima di uscire di scena lascia il canovaccio del suo monologo tra i fiori di magnolia della scenografia perché “coltivo l’illusione che Falcone questi messaggi li legge davvero.”
Tre domande all'autore:
Ayala attende sereno, si alza, mi saluta e sorride. Non traspare alcun segno di stanchezza malgrado l’ora tarda e il suo raccontare serrato terminato appena il tempo di fumare una sigaretta. E’ elegante come il suo cognome. E stupisce pensare che sia stato capace di salire su di un palco e portare in giro per l’Italia i suoi sentimenti profondi rappresi tra le pieghe di una manciata di anni tristi del nostro Paese. Il testo teatrale, tratto dal suo libro “Chi ha paura muore ogni giorno”, è una insolito esempio di teatro civile: sulla scena c’è proprio uno dei protagonisti di quegli anni che è anche un magistrato e un parlamentare. Ci sono stati momenti di difficoltà nel portare avanti questo progetto?
Non è stata una esperienza difficoltosa. Sono stato animato dall’esigenza di divulgare questa storia che non è solo la storia del nostro lavoro, ma dei fatti che portano a raccontare lo Stato in quegli anni. Quando si parla di mafia, molti dicono cose che non sono vere. Così come è accaduto per il pool antimafia. Alla fine il mio obiettivo è stato far conoscere la realtà degli avvenimenti dal punto di vista privilegiato dell’osservatore, di colui che era dentro la storia. Il mio unico interlocutore è stata la memoria. La trasposizione al teatro è stata, in realtà, una idea di mia moglie che ha sempre avuto un occhio attento alla tradizione culturale e al teatro di impegno sociale.
Quale è la sua speranza più inviolabile?
Coltivo sempre la speranza di riuscire a scorgere cambiamenti e finalmente mi accorgo che la società civile inizia a muoversi come nelle scuole, attraverso volontariato di ragazzi impegnati nel sostegno alla legalità. Anche le istituzioni si alleano per questo obiettivo. Falcone diceva che un magistrato in gamba da solo non aveva speranza. Io faccio la mia parte, ma mi sento circondato da manifestazioni di solidarietà.. ecco ora non mi sento più solo.
Un desiderio da realizzare?
Continuo ad aver fiducia nell’idea di Giovanni: la mafia è un fenomeno destinato ad esaurirsi. Voglio campare a sufficienza per arrivare a vederlo quel giorno.