Chi è contrario alla vendita dei beni pubblici?

par francesco formisano
sabato 25 agosto 2012

Per ridurre il debito pubblico, la soluzione più in voga è costituita dall'alienazione di pezzi del patrimonio pubblico. Chi vuol recuperare 15 miliardi l'anno, chi pensa di ricavarne addirittura 400. Ma l'esperienza e l'opinione pubblica non la pensano allo stesso modo.

Due settimane orsono ho raccolto il vox populi di Piero Ricca che, dal Fatto Quotidiano, intervistava i cittadini per chiedere se fosse giusta o meno una patrimoniale sulle grandi ricchezze. Questa volta, invece, la domanda è relativa alla vendita del patrimonio pubblico, visto come possibile risoluzione per scongiurare l’esplosione del debito pubblico.

E’ da un po' che si sta parlando di questa possibilità di rientro; fautore di questa tesi è il ministro dell’economia, Grilli, che propone un piano di dismissioni di 15-20 miliardi l’anno. Ma anche il duo Alfano-Brunetta, che arriva a proporre cessioni di patrimonio per un totale di 400 miliardi. E c’è anche chi pensa sia un pessimo affare visto che nel passato si è sempre ottenuto molto di meno rispetto alla cifra attesa: basti pensare alle cartolarizzazioni Scip1 e Scip2, con il ministro Tremonti, che poco o nulla hanno procurato in termini di benefici economici.

Dicevamo del vox, con annesso sondaggio sul sito: ebbene, con un campione sicuramente più rappresentativo della volta scorsa (ho aspettato un giorno intero per far sì che ci fosse un buon numero di partecipanti), quasi il 70% di essi (3650 voti su un totale di 5240) dichiara di essere in disaccordo con questa misura, proponendo di puntare tutto sulla lotta all’evasione fiscale. Altre 1200 voti circa, si dividono tra il “vendere ma non Svendere” e un “vendere ma avendo come limite l’esclusione dei beni di valore culturale – estetico”. Di sicuro, e non senza qualche vena populistica, molti avrebbero preferito vendere i politici, locali e nazionali, piuttosto che alienare il patrimonio pubblico.

Altra questione poi, da tenere conto una volta stabilita l’esecutività (ed anche l’improrogabilità) del provvedimento, sarebbe poi di decidere effettivamente quali beni destinare alla vendita. Le unità immobiliari oscillano tra i 239 e 319 miliardi, mentre c’è chi invece sostiene che ci siano 42 miliardi di beni liberi, ovvero al momento non utilizzati e potrebbero subito essere usati per far cassa. L’inchiesta dell’Espresso ricorda come con la cessione (per intero o quote di esse) delle ex aziende di stato, da Telecom a Eni, Enel o le banche ex Iri, sono stati recuperati oltre 100 miliardi: oggi farebbero ancora gola Finmeccanica e Poste Italiane.

Sinceramente, una cessione di un qualsiasi bene pubblico ci porterebbe un beneficio economico nel breve periodo, ma ci renderebbe più poveri nel medio-lungo: anche questo è un aspetto da non sottovalutare ragionando da economisti. Senza riforme e senza azioni di governo improntate all’oculatezza ed alla sostenibilità, tutto il ricavato delle cessioni potrebbe essere assorbito in men che non si dica dagli interessi del debito: significherebbe, averci privato di un pezzo della nostra esistenza, di un patrimonio lasciato in eredità, magari da decenni per non dire secoli, per essercelo giocato nell’arco di poche ore. Anche io, alla domanda contenuta nel titolo, rispondo con un decisivo:”No, grazie!”


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