Chi detiene il debito pubblico americano

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giovedì 28 luglio 2011

Gli otto anni di presidenza Bush e due guerre dissennate tuttora in corso hanno dissanguato le casse degli Stati Uniti. L'ultimo bilancio in pareggio si è avuto nel 2000 durante l'era Clinton. Da allora il Tesoro americano ha sempre chiuso i conti in deficit (-10% nel 2010), stratificando il passivo nello stock del debito pubblico. Se nel 2000 tale debito ammontava ad un gestibile 60% del PIL, oggi si approssima al 100%, pareggiando di fatto il conto con la ricchezza nazionale.

Attualmente il Paese non può ricorrere con i Buoni del Tesoro perché la facoltà di emettere titoli di debito per garantirsi liquidità non è infinita. La cifra massima, fin dal 1917, è calmierata da un tetto massimo (debt ceiling) fissato dal Congresso, oltre il quale il governo federale non ha la potestà di finanziarsi tramite obbligazioni.

1. L’attuale limite, fissato nel febbraio 2010, ammonta a 14.294.000 miliardi ed è stato raggiunto il 16 maggio. Il segretario al Tesoro, Timothy Geithner è riuscito a metterci una pezza sospendendo i versamenti ai fondi pensione dei dipendenti federali, procrastinando il problema al 2 agosto, fatidica data in cui i liquidi per oliare la pesante macchina burocratica Usa saranno veramente finiti.
L'unica soluzione è l'innalzamento del tetto del debito, altrimenti gli Stati Uniti si troveranno in default tecnico.

2. Il rischio di default che incombe sugli Usa pone l'interrogativo in merito alla sorte del debito stesso. In proposito l'Economist riporta un interessante grafico, elaborato dalla Congressional Quarterly, nel quale vengono riassunti tutti i possessori di Buoni del Tesoro Usa.
L'analisi propone diverse diverse chiavi di lettura.
Essa distingue innanzitutto tra due macrocategorie. Da una parte troviamo il “pubblico”, ossia il complesso degli investitori pubblici e privati, interni ed esterni (8.229 miliardi) e il sistema della Federal Reserve (1.427 miliardi). L'ammontare di titoli detenuto da questa ampia categoria ammonta a più di 9.000 miliardi di dollari. Spiccano in particolare i 1.152 miiardi detenuti dalla Cina, a cui vanno aggiunti i 112 miliardi in mano a Hong Kong e una frazione più risibile a Macao. A seguire c'è il Giappone, creditore fin dai primi anni Ottanta, con 906 miliardi. Terzo posto per il Regno Unito con 333 miliardi e quarto per le companies petrolifere con 221,5 miliardi. Da notare anche il Brasile con quasi 207 miliardi.
Dall'altra ci sono gli enti governativi statunitensi con i restanti 4.613 miliardi. Per la gran parte si tratta di fondi fiduciari per finanziare il sistema del welfare (come i programmi Social Security e Medicare) e la costruzione di infrastrutture. In pratica, se sommiamo questi titoli a quelli detenuti dalla Fed scopriamo che quasi la metà (circa 6.000 miliardi) del debito del Paese è con se stesso, il che non è molto rassicurante. Un po' come avveniva da noi negli anni Ottanta, quando l'allora Ministero del Tesoro apriva linee di credito presso la Banca d'Italia per finanziarsi. L'adesione all'euro, con il conseguente trasferimento delle competenze di politica in tema di monetaria in capo alla Bce, ha posto fine a questa pratica licenziosa.


In secondo luogo, oltre 7.840 miliardi sono detenuti da investitori nazionali, mentre la restante metà è in mano ad investitori esteri. Ciò significa che in caso di default il mercato soffrirebbe non poco, con ripercussioni potenzialmente gravi per la stabilità della finanza internazionale.
Infine, l'ultima demarcazione è tra titoli negoziabili e non. Quasi tutto il debito detenuto dal “pubblico” è negoziabile, ovvero passibile di essere oggetto di scambio sui mercati. Solo una piccola parte (540 milioni) è non negoziabile, dunque emesso in favore di determinati possessori e detenuto stabilmente da questi ultimi.

3. In caso di mancato accordo, l'agenzia di rating Moody's ha già avvertito circa un probabile declassamento del debito degli Usa, i quali perderebbero così la loro immacolata aura della tripla A. L'agenzia, a mercati chiusi, ha reso noto di messo sotto revisione il rating Usa a causa della “crescente possibilità che il limite del debito non venga alzato per tempo, portando a un default sulle obbligazioni del Tesoro”.
In realtà nessuno mette in dubbio la solvibilità degli Usa. I titoli sottoscritti non sono a rischio di mancato rimborso. Il punto è che un probabile declassamento comporterà di conseguenza un aumento dei rendimenti richiesti dal mercato, aggravando così la voce interessi passivi nel bilancio del Paese. E dunque il deficit. Di riflesso, anche i sistemi economici maggiormente interconnessi a quello statunitense (Europa e la Cina) potrebbero subire contraccolpi.
Si capisce come mai l'attenzione di tutti sia rivolta al braccio di ferro tra il presidente Barack Obama e il presidente della Camera John Boehner.

4. In un discorso alla nazione il presidente ha chiesto il sacrificio di tutti.Obama propone un taglio alla spesa di 2,7 miliardi, una maggiore pressione fiscale sui ceti abbienti e l'innalzamento del tetto del debito, il modo da reperire le risorse necessarie per tutto il 2012 - assicurandosi così una campagna elettorale senza patemi d'animo. Secondo i Repubblicani, invece, l'enorme mole di sacrifici dovrà ricadere solo ed esclusivamente sulle spalle dei ceti medio-bassi (direttamente attraverso il fisco e indirettamente tramite pesanti tagli al welfare) senza erodere i ricchi portafogli dei miliardari.
Ormai è chiaro a tutti che il vero obiettivo del Congresso è colpire Obama in vista delle presidenziali 2012, anche a costo di lasciar cadere gli Usa nel baratro. In altri termini, la questione è politica. Pertanto anche se un accordo fosse raggiunto in extremis, pare scontato si tratteràdi una soluzione meramente compromissoria e a medio termine, e non improntata su un ottica di lungo periodo come invece sarebbe necessario.
Con la conseguenza di riportare le parti al tavolo delle trattative (in condizioni simili) fra un anno, ossia in piena bagarre elettorale.


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