Censis, non serve cambiare l’art.18
par Paolo Borrello
lunedì 16 gennaio 2012
I lavoratori italiani interessati dall'articolo 18 ammontano a oltre 10 milioni e sono pari al 45% del totale, praticamente un occupato su due. A passare al setaccio la norma sui licenziamenti è il Censis nell'ultimo rapporto. In particolare vengono sollevati “non pochi dubbi” sulla possibilità che una eventuale modifica della norma possa aumentare l'occupazione italiana, che “ha degli unicum in tutta Europa”.
Il problema, si spiega, non è l'eccessiva rigidità del mercato del lavoro ma il rapporto che gli italiani hanno con il lavoro. Prima di muoversi verso una maggiore mobilità occorre quindi assicurare una maggiore crescita, altrimenti le nuove norme diventeranno un “moltiplicatore di ansie e paure”. Nel rapporto si sottolinea che “appaiono abbastanza sovrastimati gli effetti attribuiti all'abolizione dei vincoli di licenziabilità dei dipendenti, in termini di maggiore mobilità e di stimolo all'occupazione giovanile”. Allo stesso tempo si considera “eccessiva la conta dei danni che una simile misura avrebbe sul sistema”. Inoltre il potere dell'articolo 18 negli anni è andato sfumando sempre più: già l'accordo del 2002, consentendo deroghe alle imprese che avessero assunto nuovi occupati, superando la soglia dei 15 addetti, costituiva di fatto una sospensione implicita della noma. E anche l'articolo 8 della finanziaria del luglio 2011, autorizzando intese aziendali anche in deroga all'articolo 18, sanciva la possibilità di superamento consensuale della normativa.
Anche osservando le statistiche, si legge nel rapporto del Censis, il sistema “non sembra mostrare un'esigenza particolare di ulteriore deregolazione delle uscite, dando dimostrazione di avere ormai inglobato un buon livello di flessibilità anche in questa zona del mercato”. Nel 2010 sono stati 1,3 milioni i lavoratori transitati dall'area del lavoro a quella dell'inattività o della ricerca di nuova occupazione. Di questi, la maggioranza (il 33%), è uscita perché licenziati o messi in mobilità, il 6,2% a seguito di chiusura o cessazione dell'attività mentre il 28,1% per mancato rinnovo del contratto a termine. Quindi, complessivamente, più di due terzi delle uscite sono riconducibili a scelte imprenditoriali, siano queste indotte dalle cattive condizioni del mercato o dalla volontà di licenziare o non rinnovare i contratti di alcuni lavoratori. Solo il 19,8% è invece dovuto a cause di altro tipo, quali il pensionamento del lavoratore, o altre motivazioni di carattere personale. “I giovani, che dovrebbero essere i più avvantaggiati dalla maggiore liberalizzazione dei licenziamenti, già oggi sono quelli su cui più grava il costo della mobilità in uscita”, sottolinea il Censis.
Tra 100 persone che sono rimaste senza lavoro nel 2010, la maggioranza, infatti, ha meno di 45 anni (56,2%) e di questi il 33,7% meno di 35 anni. E su 100 licenziamenti che hanno portato a una condizione di inoccupazione 30 hanno riguardato dei giovani con meno di 35 anni e 30 persone con età compresa tra 35 e 44 anni. Solo nel 32% dei casi si è tratta di over 45. Un dato che, secondo il Censis, “solleva non pochi dubbi sugli effetti che una eventuale maggiore liberalizzazione dei licenziamenti potrebbe avere sul sistema, considerando che già oggi a farne le spese è soprattutto la componente occupazionale giovanile”. La struttura occupazionale italiana, si sottolinea nel rapporto, “ha degli unicum in tutta Europa, dei tratti che possono essere ricondotti più al rapporto che gli italiani hanno con il lavoro che non all'eccessiva rigidità di un diritto che, pur garantista, non basta a giustificare un tale livello di immobilismo”.
L'Italia presenta infatti un tasso di immobilità aziendale ben superiore a quello dei principali paesi europei: lavora da più di 10 anni nella stessa azienda ben il 50,7% degli occupati, contro il 43,3% dei francesi, il 44,6% dei tedeschi, il 34,5% degli spagnoli e il 32,3% degli inglesi. E anche in un momento di difficoltà come questo, solo il 3,7% degli italiani riesce a tradurre la paura in azione, attivandosi per cercare un'occupazione. Un atteggiamento che, sottolinea il Censis, trova spiegazione in un insieme di cause che “attengono sia alle caratteristiche del mercato, che certo non invogliano atteggiamenti più intraprendenti da parte dei lavoratori, sia alla stessa offerta di lavoro, atavicamente resistente a muoversi su un territorio che pure offre ancora molte opportunità occupazionali a chi abbia voglia di coglierle”. Tra quanti nel 2010 risultavano in cerca di un'occupazione solo il 19,5% era disponibile a spostarsi in altre regioni o all'estero per trovarne. È quindi indubbio, secondo il Centro studi, che il sistema italiano “abbia bisogno di maggiore mobilità al proprio interno, soprattutto per favorire l'accesso e la permanenza sul lavoro di quella componente giovanile, che rischia di restare sempre più ai margini. Quindi qualsiasi provvedimento che possa essere in grado di scardinare il ‘rigidismo’ degli atteggiamenti, prima ancora che dei mercati, è sicuramente positivo”. A patto però, si sottolinea, che ciò si accompagni alla “convinzione che per essere più mobile il mercato ha bisogno di dotarsi di un pacchetto di strumenti che sia in grado di scaricare sulla collettività e non sui singoli lavoratori, il costo che questa comporta”.