Castello Sforza Italia

par Giovanni Maria Sini
martedì 5 ottobre 2010

Ancora una volta il querulo gerontocrate si è esibito, nella cornice del Castello Sforzesco, in un monologo d’altri tempi.

L’immagine è la solita: un’Italia immobile, ancorata al sempreverde scontro ideologico, condannata al quotidiano regresso politico, sociale, morale e culturale.

Una storia italiana ferma all’epoca della “discesa in campo”. L’autore e interprete, per sua stessa ammissione, non ha cambiato una parola.

Il capopopolo (delle libertà) ha enunciato i suoi proclami, more solito, al pubblico in visibilio (Visibilia per la Santanchè): tema principale l’esaltazione del governo del fare (quamquam).

Come sempre unico ottimista in un paese virtuale che fa scomparire, dai discorsi, dall’agenda politica, dall’informazione, quello reale: il calo occupazionale, le imprese che cessano l’attività o che delocalizzano, il lavoro che non c’è, la disoccupazione vecchia e nuova, lo sviluppo economico che manca (di ministro e di ritrovate opportunità) e la crisi economica ancor vigente.

Altro tema dominante, oltre l’esaltazione di sé e il promettere mirabilia, la solita, infuocata querelle tra politica e magistratura: déjà-vu.

Il Presidente del Consiglio, anche lui di lotta e di governo, continua ad imputare tutti i mali dell’Italia alla longa manus sinistra.

Nella sua veste da imbonitore – è innegabile – ha un certo fascino ed un innegabile seguito. Un consenso che, da più parti, è stato equiparato al populismo. A onor del vero si tratta d’una capacità che non si concretizza nell’assecondare le aspettative del popolo o farsi carico delle istanze e delle necessità collettive. E’ qualcosa di diverso: sono le personalissime urgenze individuali che si proiettano come bisogno unanimemente condiviso.

Dal nostro punto di vista siamo oltre quella democrazia che impone il rispetto delle regole, l’equilibrio dei poteri e la loro inalterabilità (se non attraverso un processo ed un’elaborazione largamente partecipati e non a colpi di maggioranza).

E noi, oggi, dovremmo retrocedere di 16 anni, come se nulla fosse capitato nel frattempo?

No! Andiamo avanti su un’altra strada: la ragionevolezza e, perché no, il costruttivo confronto, non più preda dello sfascio politico-istituzionale desideroso di fare tabula rasa.

E, allora, in attesa dell’ulteriore e ormai indomabile furia montante (che potrà riguardare, per esempio, la reiterata richiesta di dimissioni del Presidente della Camera, subito dopo la formalizzazione del nuovo partito o la contestazione della Corte Costituzionale, a seguito di eventuali decisioni sfavorevoli) facciamo nostra la recente analisi di Massimo Cacciari.

Diamo ascolto e priorità a tutto il resto, non alla visione privata della giustizia destinata a restare vexata quaestio.

C’è un’Italia che aspetta risposte ed auspica certezze più solide e non ha più voglia di proclami.


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