Burkini | Il velo sui valori in gioco

par UAAR - A ragion veduta
martedì 30 agosto 2016

Orioli: Se non sottintendesse questioni ben più pregnanti e complesse, che sembrano però passare in secondo piano, l’odierno e pompato dibattito sul burkini sì-burkini no starebbe benissimo nell’elenco dei classici tormentoni estivi. Dai consigli antiafa, alle diete lampo, ai bollini sulle autostrade.

Carcano: È proprio il caso di dirlo, una classica lettura da spiaggia! Ho personalmente sentito persone intelligenti definire il dibattito sul burkini “un’arma di distrazione di massa”. Purtroppo non è così: è anzi il caso che sta portando alla luce molti temi che si era cercato di nascondere sotto il tappeto. Da questo punto di vista, è benvenuto.

O: A guardarlo così, il burkini a me personalmente fa lo stesso identico effetto dello scomodo, incongruo e fronzoluto bikini che vedo imporre alle bambine dai due anni in poi sulle nostre spiagge. Una sorta di maliziosa e ipocrita pudicizia che rivela una paradossale impudicizia di fondo e che guarda caso colpisce, quale che sia la latitudine, il cromosoma XX in quanto tale.

C: Un po’ come le pecette sui cartelloni dei film porno, negli anni ’70. C’è anche questo elemento, nel dibattito in corso. A me è particolarmente piaciuta la provocatoria proposta di Caroline Fourest di rispondere praticando il nudismo di massa. Uomini e donne insieme, beninteso. Un altro aspetto che non viene evidenziato è il retroterra del burkini: un marchio commerciale proposto ormai non solo alle musulmane, ma a tutte le donne che vogliono “sentirsi alla moda”. Veicolando in tal modo un vittorianesimo di ritorno di cui non si sentiva la mancanza.

O: Retroterra recentissimo, infatti, così come modernissimi i materiali utilizzati. Lycra e integralismo modaiolo. Ed è proprio questa sorta di reflusso, una gigantesca ernia iatale reazionaria, che meriterebbe di essere analizzata più a fondo, non limitandosi alla facile comparazione delle foto delle spiagge di ieri e di oggi di molti paesi, compreso il nostro. In ogni caso non occulta i lineamenti di chi li indossa, a differenza del burka vero e proprio. Che “mostrare il volto sia dovere sociale” infatti, per usare le parole della Merkel, mi sembra onestamente scontato. Come non entrare con il passamontagna alle poste o con il casco in farmacia.

C: Ma il casco non è un simbolo religioso. Il fattore ‘R’ consente alle religioni e ai suoi fedeli privilegi sconosciuti ad altri. In Italia le suore e le musulmane possono velarsi il capo sulla carta d’identità, ma è un privilegio riservato a chi lo giustifica con la fede. Sono i frutti avvelenati dell’accomodazionismo, nato per proteggere le minoranze ma che è finito per proteggere cristianesimo e islam.

O: Beh dai, in qualche paese europeo anche i pastafariani e i loro scolapasta. Che, con irridente goliardia ben evidenziano il raccolto di quei frutti avvelenati ai quali ti riferivi. In ogni caso, alle Olimpiadi il burkini continua a sembrarmi del tutto fuori luogo. E anche in netta contrapposizione con la miriade di norme che regolano il ferreo dress code di ogni disciplina e di tutta la competizione in generale. Puoi gareggiare in mutande ma non puoi salire sul podio se non hai i pantaloni lunghi, per dirne una. Alcuni costumi sono stati oggetto di polemiche perché pericolosi o al contrario troppo facilitanti ma, se è in gioco l’eccezione religiosa, poco importa che si facciano competere atlete con palandrane improbabili. E che, mi sembra evidente, oltre ogni possibile altro aspetto e considerazione, penalizzano e non di poco la performance sportiva. Mettete un burkini a Simon Biles e ne riparliamo.

C: Vale quanto sopra. È probabile che le atlete egiziani fossero comunque poco performanti, ma in tal modo si sdoganano valori che con lo sport non hanno niente a che fare. Il problema è del resto istituzionale: alle Olimpiadi è addirittura all’opera un comitato interfedi, ovviamente inventato a Torino.

O: Sarà che sono refrattaria alla logica del meno peggio, ma la contro argomentazione semplicisticamente feliciotta dell’“Almeno adesso possono… che bello!” ha il suono di un insulto. Quote rosa (di pelle scoperta).

C: La presidente dei giovani musulmani ha infatti risposto in questo modo, denunciando la negazione di un diritto. Come se vietare la poligamia (altra rivendicazione di questi giorni) significasse negare a una donna maggiori possibilità di trovare un marito. Remona Aly, sul Guardian, ha addirittura invitato a indossare il burkini per “celebrare una liberazione”. Curioso che le donne musulmane non abbiano invece mai molto da dire sulla sottomissione di genere vigente nell’islam. Del resto, islam significa “sottomissione”: in qualche modo sono coerenti.

O: L’immagine che a non pochi maître à penser della nostra cosiddetta sinistra ha messo tanta allegria, “tanti colori e tante culture” (tra il folklore e il pittoresco, insomma) delle giocatrici di beach volley, due in bikini due modello spedizione polare, a me continua a sembrare una violazione quantomeno termica dei diritti umani.

C: È uno dei due corni del delirio comunitarista. È la posizione di chi vorrebbe che gli africani girino per sempre seminudi, perché così anche i suoi figli potranno in futuro mostrare agli amici foto esotiche. Il ghetto valorizzato come attrazione turistica. Come il caso-Capalbio, fa tutto molto gauche-caviar.

O: Non che a destra vada meglio; un altro po’ e le vorrebbero tutte nude per principio, se islamiche. Perché non si impongono simboli religiosi. Che non siano crocifissi o presepi, ovviamente.

C: La destra, per giustificare i privilegi che concede alla propria religione, deve necessariamente applicare due pesi e due misure. In questa contrapposizione viene sempre meno preso sul serio l’universalismo: sia nel senso di uguaglianza di tutti davanti alla legge, sia nel senso di diritti condivisi che dovrebbero costituire il minimo comun denominatore del vivere insieme.

O: Eppure il cortocircuito c’è o quantomeno è pericolosamente vicino e latente. Illiberale vietare il burkini, a mio avviso, così come è illiberale per contro vietare il topless, checché ne pensino le donne di Comunione e Liberazione, favorevoli al primo ma non al secondo (strano). E ancor più nel complesso è illiberale e condannabile il restringere, sulla base poi dell’ordine pubblico, concetto pericolosissimamente elastico e strumentalizzabile, l’ambito dell’autodeterminazione dell’individuo sul proprio corpo, in generale. L’ambito dell’abito, nello specifico.

C: Un’altra delle favole che gira è che le ordinanze francesi siano basate sul principio di laicità, anziché su quello di sicurezza come invece è in realtà. Al contrario, la laicità è basata su altri principi: l’autodeterminazione, appunto. Ma anche l’uguaglianza. Le religioni — pressoché tutte, anche se con modalità diverse — discriminano le donne. È un problema che le istituzioni perseverano cocciutamente a non voler vedere: vogliono sembrare laiche e, nello stesso tempo, favorire le religioni. Una quadratura del cerchio di cui la vicenda-burkini sta palesando l’insensatezza.

O: Esattamente il punto cruciale di tutta la questione. Illiberale vietare, ma quanta dose di autodeterminazione e libertà c’è, al contrario, nello scegliere il velo, il burka, il burkini? C’è tout court libertà di scegliere? Quanto è labile e tagliente il confine tra il volere e l’essere costretta a volere? Non parlo dei paesi islamici, parlo delle spiagge vip dal divieto facile del nostro Occidente. Quanti e quali diritti ha una donna musulmana, oltre a quello di essere, per l’appunto, musulmana?

C: Il New York Times ha accusato le autorità francesi di paternalismo, perché vorrebbero dire alle donne come si dovrebbero o non dovrebbero vestire. Ma non ha speso una parola per denunciare i tanti padri che battono le loro figlie perché si rifiutano di indossare il velo. La libertà, per essere tale, deve essere liberamente esprimibile: se sono d’accordo sul fatto che, andando in spiaggia, le donne musulmane potrebbero avere qualche chance in più di entrare in contatto con idee diverse, resta il fatto che ciò è precluso (talvolta duramente) all’interno della famiglia. Nelle comunità musulmano si passa per radicali quando ci si toglie il velo, non quando (nel caso degli uomini) ci si fa crescere la barba e si comincia a chattare con qualche jihadista.

O: Senza voler entrare nel difficile dibattito su identità e fede, quanto uno stato che si dice laico può o deve incidere? Quanto l’integrazione tanto nominata, sempre che sia necessaria e necessitata, si costruisce su divieti che giocoforza irrigidiscono tutte le posizioni in gioco, o al contrario su permissività di facciata, su diritti speciali e contingentati, che finiscono per quando non creare quantomeno spesso proteggere ghetti etnico-religiosi sempre più serrati? L’immagine dei poliziotti francesi che obbligano una donna a spogliarsi (levarsi strati di tessuto, ma l’effetto resta quello) è integrazione, imposizione di civiltà o sopraffazione?

C: Non è integrazione passare dal velo al topless, ma non lo è neanche lasciare che alla porta accanto si violino diritti umani — basta che tengano il volume abbassato. Se si “crede” realmente che i valori proclamati dalle Costituzioni europee siano da tradurre in pratica senza soluzione di continuità. Se si vuole realmente formare individui consapevoli, si deve allora dire senza troppi giri di parole che — per esempio — i veli sono simboli di sottomissione della donna, che le religioni trattano diversamente donne e uomini. A cominciare dalle scuole per proseguire sui mezzi di informazione. Capita invece che ogni critica all’islam sia tacciata (anche autorevolmente) di “islamofobia”. Non si dà spazio alle donne musulmane che si tolgono il velo, o che addirittura abbandonano la fede, né si parla dei rischi a cui vanno incontro. Però siamo ormai a un bivio. Negli anni ’70 la maggioranza delle musulmane andava a capo scoperto, mentre gay e lesbiche dovevano nascondere il loro orientamento sessuale. Oggi c’è il matrimonio omosessuale (anche se non da noi) e non si sono mai viste così tante donne velate. È un confronto a puro titolo di esempio, ma non possiamo far finta che non vi siano pezzi di società che prendono direzioni opposte e persino antagoniste. Soprattutto, non possono non tenerne conto i musulmani. Pena la legalizzazione dei ghetti e la ghettizzazione delle leggi. E non è solo un gioco di parole.

Raffaele Carcano e Adele Orioli


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