Borghesia e camorra

par Ettore Scamarcia
martedì 3 marzo 2009

Se la camorra è cresciuta tanto negli ultimi decenni, la causa non va ricercata (come erroneamente fanno molti giornalisti televisivi) nei quartieri popolari di Napoli, nelle degradate periferie o nei paesoni dell’hinterland. Bisogna dare uno sguardo anche a Posillipo o al Vomero: senza importanti elementi della borghesia, la camorra (e tutte le altre mafie italiane) sarebbe rimasta un fenomeno locale e di scarsa incidenza sulla vita politica ed economica del Paese.

V’è una realtà particolare a Napoli, comune anche in tutte le grandi città d’Italia e non solo, ma a cui le enormi quantità di documentari e notiziari riguardo la realtà partenopea non fanno minimamente cenno (d’altro canto se una cosa non viene trasmessa in televisione, o comunque narrata dai mass media, semplicemente non esiste).

Napoli è stata raccontata solo dal basso. Sono innumerevoli i servizi giornalistici svolti nei quartieri popolari cittadini, negli umidi e oscuri bassi che sembrano affogare fra vicoli e anguste piazzette, oppure nelle grandi e sterminate periferie, dove lo spazio vitale si dilata talmente tanto che i Napoletani hanno trovato gusto, forse per forma mentis, a limitarli spontaneamente con dei parcheggi, dei mercati rionali e merci esposte un po’ ovunque. Ma nessun documentario è andato a dare un’occhiata nei quartieri "bene" della città. Si è preferito ghettizzare solo il popolino, al punto da suscitare in alcune parti d’Italia un atteggiamento razzista nei suoi confronti. Se si vuol cercare la risposta alla domanda "come e perchè" la mafia, la camorra e la ’ndrangheta hanno scalato le vette del potere bisogna recarsi nei salotti buoni del nostro Paese, dove operano i veri colpevoli di tale situazione.

Sulla borghesia napoletana è stato prodotto un vero e proprio genere letterario, che però i giornalisti televisivi non raccontano. Si è detto che la classe borghese è autoreferenziale, chiusa in sè stessa, impegnata a tramandare i propri privilegi e sotterfugi alle generazioni future. In realtà, una parte d’essa, è più attiva che mai. Quanti avvocati, imprenditori, politici, affaristi partecipano alla vita di un clan, anche se lavorano contigui, senza farne parte pienamente? La camorra non avrebbe mai potuto fare il salto di qualità senza la collaborazione delle classi borghesi del nostro Paese. Stesso discorso vale per la mafia e per la ’ndrangheta.


Sarebbero rimasti fenomeni locali, legati semplicemente al pizzo e al traffico di droga, alla stregua delle gang americane. Non si sarebbero mai gettati nel controllo degli appalti pubblici e privati, nella gestione di business come l’edilizia o i rifiuti, mancando capacità e figure professionali. I tramiti giusti sono proprio quegli uomini di più alto rango sociale. Offrono il loro supporto e i boss sanno bene che non devono far loro del male, sennò i clan non avrebbero vita lunga.

Non si racconta nemmeno di un’ennesima realtà di Napoli. Quanti sono i giovani appartenenti alla borghesia che lavorano con gruppi criminali? Mi spiego: non esistono solo i "muschilli", ovvero quei ragazzini che vengono presi dalla camorra per le strade dei rioni popolari più degradati a fare i pusher (altro che stupratori), gli informatori o altro. Esistono anche giovani provenienti da famiglie facoltose ed illustri. Forse farebbe scandalo e disonore ad una famiglia di medici o ingegneri un figlio che lavora per un clan camorristico?

I figli di buona famiglia che intraprendono lo spaccio di droga, spesso marijuana o hashish (ma non disdegnano di eseguire dei trasporti di cocaina per singoli membri della camorra), si dividono in due gruppi: vi sono quelli che lo fanno in proprio e quelli che rivendono i prodotti ai clan, specialmente a quelli del centro storico. I cosiddetti "figli di papà" spesso producono autonomamente la droga, fittando dei locali adatti allo scopo. Rivendono poi il prodotto direttamente a qualche uomo del clan, traendo anche degli ottimi profitti a lungo andare. Ma possono anche affidarsi ad altre persone, appartenenti sempre alla camorra, per poter avere i contatti giusti e le risorse giuste in modo tale da intraprendere una propria attività, pagando ovviamente una tassa al clan.

Lo spaccio in proprio, in territori come Napoli, è pericoloso. La camorra non ammette sgarri e ne è la dimostrazione il fatto che i camorristi, durante il periodo autunnale di occupazioni contro la Riforma Gelmini, siano entrati armati di pistole in alcune scuole a verificare che non vi fosse alcuno spaccio di sostanze stupefacenti svolto in proprio. L’acquisto si deve fare sempre presso le rivendite dei clan.

Parte della borghesia e la camorra sono da sempre uniti. Ma la colpa è in sostanza di tutta la classe dirigente, anche di chi non fa parte, preferendo il silenzio alla parola.


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