Bisogna resistere al mobbing

par Maria Rosa Panté
lunedì 8 aprile 2013

All'inizio non puoi più parlare tranquillamente perché sai che le tue parole sono sotto osservazione. E se pure siamo in tanti a parlare e delle stesse cose, solo le tue parole saranno ascoltate e prese di mira. Poi non puoi muoverti come vorresti, come hai sempre fatto, perché non vuoi incontrare chi ti aggredisce e allora cerchi entrate secondarie, non frequenti luoghi comuni e, per evitare incontri difficili, cambi luogo, stanza, corridoio. A quel punto anche lavorare diventa difficile, una corsa a ostacoli.

Nutri sentimenti brutti: di rabbia e frustrazione e queste emozioni sono pur sempre sentimenti vivi. Puoi arrivare, infatti, a nutrire solo angoscia, ansia, depressione; puoi arrivare a pensare che quell'accanimento, quell'aggressione te li meriti perché sei tu che non vai bene, la colpa è tua e tutti dovrebbero starti alla larga per non essere contaminati. E ti stupisci, come accadde a Simone Weil mentre lavorava come operaia, che qualcuno sia gentile con te. Nonostante la tua macchia infamante di “presa di mira”, o piantagrane che dir si voglia.

Tutto questo accade ancora e sempre sul lavoro, può accadere a uomini e a donne, ma più spesso a donne con implicazioni che finiscono nella sfera emotiva, dato che in Italia per lo più capi e dirigenti sono uomini. Accade che un capo, un dirigente ti prenda di mira, tu lavori e non va bene, quello che fai è inferiore alle aspettative, quello che sei ormai è insopportabile. Cerchi di nasconderti, ma non serve perché in realtà tu, che sei la vittima, hai una funzione importante: sei il capro espiatorio, chi comanda e ti prende di mira non ti sopporta e ha bisogno di te. I due aspetti paiono opposti, ma sono strettamente connessi in una spirale da cui è difficile uscire sani e salvi.

Credo si possa definire mobbing. A me è già accaduto, per questo, perché so, non posso fare a meno di pensare a quante altre persone, uomini e donne, giovani e non, sono sottoposti a questo trattamento sul posto di lavoro. Penso agli operai che, oltre all'oppressione della catena di montaggio, subiscono altre forme di costrizione; penso a chi, sotto lo spettro della disoccupazione, deve dire di sì a ogni sopruso; penso anche a chi per fare carriera deve vendere i suoi sogni. Io ho opposto due forme di resistenza, oltre a quella giuridica: in primo luogo non lasciare intaccare la mia persona, la mia dignità, la mia certezza che siamo tutti uguali. E poi, ma è difficile, non provare sentimenti di odio per nessuno, nemmeno per chi in tutti i modi cerca di umiliare, di opprimere, di prevaricare.

Nessuno può fare questo a un'altra persona, aldilà delle funzioni professionali, siamo tutti uguali non solo giuridicamente, ma anche e soprattutto esistenzialmente.

Per questo io chiedo alle persone che sentono questo problema di scrivermi, di parlarmi, di dirmi qual è la loro condizione perché è utile parlarne senza pensare di avere un marchio di infamia, senza paura; perché è utile smascherare questi meccanismi. Il lavoro in certi casi è in sé oppressione, se almeno tra le persone ci fosse solidarietà si vivrebbe meglio. Anche i capi, perché chi opprime non sta bene, è infelice pure lui!

E poi ecco che chi non ha lavoro si suicida come nelle Marche è il circolo vizioso dell'oppressione è perfetto. Ma le vittime sono tante: parliamoci, uniamoci e chiediamo un trattamento dignitoso davvero per tutti.

La mia mail: mariarosap33@gmail.com


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