Beethoven è sceso dal tram. Storie di ordinario razzismo

par lasorellastupida
lunedì 8 marzo 2010

Verona, storie di ordinario razzismo: intolleranza musicale sull’autobus.

E’ govedì, sono le cinque e pioviggina. La stazione è gremita di gente. Ad ogni uscita loschi figuri si mescolano a studenti e lavoratori, tutto sotto gli occhi attenti dei difensori della legge che, dai due angoli dell’edificio, controllano la situazione. Ai marciapiedi degli autobus non c’è molta coda, quando arriva il numero 24 infatti, solo quattro persone salgono insieme a me e altre cinque ne troviamo a bordo. C’è un’aria grigia fuori e tutte le facce sembrano più stanche oggi. Sarà perché è giovedì e la settimana pesa sulla schiena accasciata sul plasticoso sedile, oppure sarà la pioggia che è lì lì per regalarci un po’ di sane scarpe inzuppate ed umidità, fatto sta che sembriamo tutti adormentati.
 
Nonostante questo tutti abbiamo notato il particolare sottofondo musicale che accompagna il viaggio: io sono ancora dormiente dal treno, perciò fatico a capire da dove provenga quella melodica litania. Cerco di incrociare lo sguardo dell’autista in cerca di un cenno di spiegazione del tipo "Sì sì è la musica", ma niente. Alzo lo sguardo alla ricerca di casse hi-fi, piacevolmente colpita dalla possibilità che la mia città sia sia buttata così "avanti" da diffondere musica sul bus per rallegrare le grigie facce in giornate come questa. All’improvviso, svegliandomi dal torpore regalatomi dal dondolio del treno che mi ha portato qui, capisco che questa dolce litania proviene dal radio/telefonino dell’uomo seduto di fronte a me, poco più avanti.
 
Ascolto meglio e capisco che quella che io avevo piacevolmente ed ingenuamente definito una "dolce litania" altro non era che la preghiera del muezzin: sono le cinque ed è ora del salmo che deve ricordare a tutti i musulmani l’obbligo della preghiera. L’uomo che lo ascolta ha gli occhi chiusi, la testa appoggiata al vetro, la mano dietro l’orecchio ed uno sguardo beato. E’ l’unico che ha il sorriso stampato sulla faccia, nonostante la stanchezza e la fatica siano ben visibili nelle sue rughe e rintracciabili nelle sue mani e nella sua magrezza. Lo invidio. Penso "Che uomo. Dopo una giornata di lavoro prega. Che dono" e mi perdo ad ammirarlo inorgoglita dal fatto che forse anche Verona sta diventando un centro multiculturale. Chiudo gli occhi, mi appoggio al vetro e seguo la melodia e le parole del salmo che al mio ignorante orecchio suonano come nenia della buonanotte. Mi rilasso e sorrido.
 
Poche fermate più avanti la rottura dell’equilibrio giunge sul bus, rincarnata da una distinta coppia di anziani, eleganti, un po’ chiassosi, ma inizialmente innocui. Lei, come entra sulla vettura prende posto vicino al finestrino centrale ed arricciando il naso, quasi contorcendolo, chiede al marito, ancora inquieto alla ricerca del posto perfetto: "Sa ela sta roba? Musica araba?" che, tradotto in un più comprensibile italiano, sta per "Cos’è questa cosa? Musica araba?". Il marito, improvvisamente preoccupato per l’incolumità della moglie e, a quanto emerge, di tutto un "noi" locale invisibile ai più, sbotta con identico accento veneto "Ah! Andrà a finir che no podaremo gnanca più ascoltar Beethoven" esponendo a tutti i passeggeri il drammatico pericolo di non poter più, un giorno, farsi accompagnare dalle dolci note della musica classica del famoso compositore. La gente è sgomenta, chi scuote la testa, chi alza gli occhi al cielo, chi fa finta di niente e si trattiene dal commentare, a favore o contro, chi lo sa. L’uomo che stava pregando improvvisamente, senza alzare lo sguardo dal pavimento, con un gesto microscopico estrae dalle tasche il telefonino e spegne. Io resto allibita, il sangue inizia a pulsarmi nelle vene, mi vergogno dei miei concittadini e mi batte il cuore in gola vedendo gli occhi dell’unico uomo prima sorridente, spegnersi in un’onda di umiliazione. Si alza, fa per scendere. E’ la mia fermata, mi alzo anche io. Vorrei dire qualcosa, al signore veronese innanzitutto, ma porto rispetto a quella che dovrebbe essere "la saggezza dell’anziano" e taccio. Mi accosto all’uscita, guardo l’uomo arabo negli occhi, ma lui sembra fissare il vuoto. "Eri tu che ascoltavi la musica" chiedo impacciata, "Sì" mi risponde timidamente lui. Avrà quarantacinque anni o qualcosa di meno. Si starà chiedendo cosa vorrà mai una ragazzina come me, variopinta e con troppi bagagli per tre giorni fuori città. "Non devi spegnere solo perché ti fanno questi commenti, sei libero di ascoltare tutto quello che ti pare!". E sento l’occhio della coppia di anziani frustarmi la schiena, scuotere il capo, sbuffare e ringraziare i santi che io non sia la loro nipotina. "Sono vent’anni che vivo qua. Guarda, mi sono fatto i capelli bianchi a forza di sentire queste cose! ". Alza il cappello, mi mostra i ricci grigi in un misto tra un elegante inchino ed un saluto di un cavaliere. "L’arma migliore è tacere" continua lui "ma grazie comunque, che Dio ti benedica." Mi sfoggia un sorriso, mi dà una pacca sulla spalla, scende. Scendo anche io. Mi è passato il tuffo al cuore e anche la vergogna. Sento la sua benedizione sulle mie spalle. Nonostante io non abbia fede, questa è una delle cose più sincere e profonde che mi sono sentita dire negli ultimi tempi. Penso alla coppia, a cosa intendesse dire lui con quela frase. Io Beethoven in autobus non l’ho mai ascoltato, a meno che io me ne intenda talmente poco da non aver sentito tra le note pop di un amore finito ed una ballata sulle scarpe nuove, le note di Concerto per pianoforte ed orchestra n°2 o aver scambiato un contrappunto polifonico per semplici e troppo ripetitive parole di un ritornello americano.
 
Mi chiedo di questo passo dove finiremo, torneremo ai posti per bianchi e neri sul tram? Ai quartieri, trasformati in ghetti con distinzone per razza e religione? Ma soprattutto mi domando e mi rattristo nel non trovare risposta: perchè la mia città ha così paura dell’altro? Racconto a tutti la mia avventura sull’autobus, qualcuno si scandalizza con me, quacun’altro mi ignora o mi prende per la solita polemica di professione. Che strano, eppure a me avevano insegnato un articolo della Costituzione che, se non erro, recita così: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali". Ma, d’altra parte, la memoria gioca brutti scherzi, chissà di questo passo dove andrò a finire.

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