Banche centrali, la guerra delle svalutazioni
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venerdì 12 ottobre 2012
Tra le banche centrali dei vari Paesi è in atto una corsa alle svalutazioni per rilanciare le esportazioni, e dunque le rispettive economie. Un interessante articolo dell'economista Demostenes Floros su Limes spiega l'effetto delle attuali politiche monetarie espansive sui prezzi delle commodities, in particolare del petrolio:
I fondamentali del mercato, nonostante il persistere di alcuni problemi produttivi nel Mare del Nord e gli scontri in Libia, suggeriscono comunque un’offerta robusta mentre, secondo quanto segnalato dall’American Petroleum Institute, in agosto la domanda di greggio negli Stati Uniti si è contratta del 4,3%, il livello più basso per il mese estivo da ben 15 anni.
L’incremento dei prezzi trova allora una propria giustificazione nelle politiche monetarie espansive implementate dalle principali banche centrali occidentali, la cui spinta però potrebbe avere già ceduto il passo ai timori relativi a un peggioramento della crisi economica atlantica, quindi della domanda di materiali di base (minerari e agricoli).
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Come era ampiamente prevedibile, le politiche di espansione monetaria hanno stimolato l’acquisto di oro da parte degli investitori preoccupati dall’inflazione, contribuendo così ad aumentarne il valore oltre i 1787$/oncia (25 settembre), il massimo da sei mesi. Secondo il Fondo Monetario Internazionale (Fmi), nel corso dei primi 8 mesi del 2012, le banche centrali hanno incrementato le loro riserve di oro di 262,1 tonnellate rispetto alle 203,4 dello stesso periodo dell’anno precedente. In particolare, la Turchia è stata il paese più attivo (100,2t), seguita dalla Russia (52,8t).
Secondo Moody’s, nel 2012, i paesi emergenti cresceranno del 5,2%, in calo rispetto al 5,8% precedentemente stimato mentre, nel 2013, l’aumento del pil è stato stimato del 5,7% invece che del 6%. La Cina, dopo aver commerciato in yuan con Giappone e Iran lo scorso giugno, il 6 settembre ha deciso di pagare le forniture di greggio provenienti dalla Russia con la propria valuta senza passare dal dollaro.
Nonostante sia ancora prematuro immaginare un avvicendamento dell’utilizzo del biglietto verde nel ruolo di valuta di scambio (il Dragone è il principale creditore degli Usa), ci pare opportuno evidenziare come Pechino - già primo importatore di metalli al mondo - potrebbe gradualmente decidere di imporre ai paesi esportatori yuan in cambio di merci sancendo, per la propria moneta, la nascita del ruolo di riserva di valore.
Il 6 settembre 2012, la Bce, dopo aver mantenuto inalterata la struttura trilaterale dei tassi di interesse, ha dichiarato la propria volontà di acquisti illimitati, ma sterilizzati, di bond sovrani sul secondario; allo stesso tempo, Bruxelles ha precisato che il Fondo Esm agirà sul mercato primario. L’intervento combinato sarà però possibile solo per quei paesi che ne faranno richiesta e che decideranno di sottoporsi al Memorandum of Understanding.
Il 13 settembre, anche la Fed – dopo avere lasciato inalterati i tassi di interesse – ha comunicato l’inizio del terzo ciclo di Quantitative easing al ritmo di 40 miliardi di dollari al mese, senza precisarne la fine. Operazioni analoghe sono state fatte dalla Banca centrale del Giappone (BoJ) [per un trilione di dollari: si veda qui] e da quella del Regno Unito (BoE).
Di diversa natura ci sembra l’immissione record da 58 miliardi di dollari di liquidità da parte della People’s Bank of China (Repo) avvenuta in corrispondenza del massimo raggiunto dallo yuan sul dollaro, negli ultimi 19 anni: la situazione è differente, infatti, sia per quanto riguarda il livello dei tassi di interesse, sia per il coefficiente di riserva obbligatoria. Per di più, sin dal 2008, le politiche economiche di Pechino si sono discostate dalla linea di austerity imposta dall’Uem e dell’Inghilterra ponendosi l’obiettivo di aumentare la domanda interna.
In questa guerra tra svalutazioni volte a fare ripartire l’economia grazie alle sole esportazioni, sarà utile riportare le parole di John Maynard Keynes il quale, 75 anni fa, scriveva che “il tempo giusto per le misure di austerità è durante un boom, non durante la depressione”. L’impressione allora è che la crisi, prima di superarla, la si voglia - soprattutto - utilizzare.
Le speranze di ripresa dell'economia mondiale passano per i numeri in positivo delle economie emergenti. I quali non sono più così in positivo come in Occidente speravamo. Preoccupa la Cina, che da presunta locomotiva della ripresa mondiale sta per trasformarsi in termometro del (imminente?) Double Dip.
In agosto l'output industriale è cresciuto dell'8,9% rispetto all'anno prima: livelli da fantascienza per noi europei, ma preoccupanti per i cinesi, visto che nell'analogo periodo del 2011 la crescita era stata del 9,2%. Con l'industria manifatturiera in fase di rallentamento (in agosto ha toccato il punto più basso da tre anni a questa parte), e con l'inflazione in salita, Pechino deve seguire nuove strade se vuole mantenere la sua crescita in linea coi livelli attesi. Così in settembre ha promesso il proprio supporto per risolvere la crisi dell'euro e ha annunciato un piano di riforme finanziarie (tra cui una maggiore flessibilità dello yuan sul mercato dei cambi) da completarsi entro il 2015.
Tuttavia, gli effetti della frenata cinese cominciano già a farsi sentire, sia in America Latina che in Europa.
Tra tutte, la politica monetaria più aggressiva è quella adottata dalla Fed con il prossimo QE3, il quale va interpretato, oltreché nel quadro prettamente economico, anche nella contingenza delle elezioni di novembre. Peccato che questa contesa globale a viso aperto, che ormai le banche centrali non si preoccupato più di nascondere, potrebbe avere delle conseguenze negative per tutti.
Resta una domanda, forse ingenua ma di sicuro pertinente: se tutti svalutano per esportare, alla fine chi è che importa? In ogni caso, sembra passato dal G20 di Seul, poco meno di due anni fa, i grandi della Terra avevano convenuto una tregua nella corsa alle svalutazioni.