Avvocati precari: un popolo numeroso e senza voce

par Traiettorie Sociologiche
mercoledì 17 novembre 2010

di Sara De Balsi per Traiettorie Sociologiche

"Mia suocera beve", di Diego De Silva, impazza in libreria. Le avventure di Vincenzo Malinconico, “avvocato semidisoccupato e filosofo involontario” – come scrivono le quarte di copertina di Einaudi, che lo pubblica nei Coralli – addomesticano il lettore a suon di amarissime risate.

Noi, Vincenzo Malinconico l’abbiamo conosciuto attraverso "Non avevo capito niente", finalista al premio Strega 2008, dove compariva per la prima volta. Ciò che più ci colpiva, nelle trecento pagine di avventure professionali e private del quarantaduenne avvocato napoletano, era la verità che trasudava dal racconto del proprio mestiere. Perché Vincenzo Malinconico non ha pudore di descrivere, in molte delle digressioni che caratterizzano la sua prosa, gli splendori – pochi – e le miserie – molte – della professione di avvocato nel ventunesimo secolo, e al Sud in particolare. Le difficoltà, soprattutto economiche; le frustrazioni; la concorrenza spietata; la mancanza di correttezza che dilaga in ogni circostanza.
 
“Il fatto è che qui da noi gli avvocati sono diventati come gli assicuratori, o gli agenti immobiliari. Ce ne sono a bizzeffe, uno più affamato dell’altro. Basta fare due passi in una strada anche periferica e contare le targhette affisse ai portoni. (...) Qui si tratta, ma davvero, di stare sul mercato con un minimo di sensatezza (cioè, pagare le spese e portare qualche soldo a casa) o chiudere baracca. E la vera tragedia è che questa politica della sopravvivenza accomuna ormai trasversalmente sfigati e garantiti, privilegiati e poveri cristi.”(p. 69)
 
“Non troverete mai un avvocato, o un qualsiasi altro professionista disperato che annaspa nella saturazione del mercato contemporaneo, disposto a dirvi: «Guadagno meno di una cameriera, se non fosse per la mia famiglia dovrei chiudere lo studio domani mattina, però vado in giro in giacca e cravatta e faccio finta di niente». Non c’è verso. Nessuno di noi sputerà mai il rospo. Siamo una maggioranza reticente. Non abbiamo sindacato né rivendicazioni. Non siamo pericolosi. Viviamo nell’imbarazzo e nel senso di colpa. Non facciamo altro che aumentare.” (Pag. 175, corsivo nostro)
 
“Violando apertamente il divieto che per primo dovrebbe osservare, il pubblico ministero afferra un pacchetto di Rothmans Ultralight, ne tira fuori una, se l’assesta tra le labbra e ci fissa, come a dire se abbiamo qualcosa in contrario.” (Pag. 35)
 
Il romanzo di De Silva mette insomma sulla scena un problema sociale sconosciuto ai più: la condizione di precarietà in cui versa la maggior parte degli avvocati, e non sempre dei più giovani. E ci spinge così ad approfondire l’argomento, chiedendo conferme o smentite a chi è – e non per fiction – del mestiere.
 
 
Alessandra ha 40 anni ed è avvocato dal 1999. La prima domanda che le facciamo è: ma siete davvero così tanti?
“Siamo tantissimi... E per la maggior parte siamo nella stessa condizione. Poi, è ovvio, come in tutte le professioni ci sono i lavoratori non precari! Ma, se dovessi sparare una percentuale, direi che l’80% degli avvocati con cui ho a che fare è nella mia stessa situazione”.
 
Che è pressappoco quella del protagonista dei libri di De Silva. Alessandra ha letto Non avevo capito niente e ci confessa che il libro l’ha portata ad interrogarsi sulla natura esatta della precarietà del suo lavoro. “Penso che la precarietà dell’avvocato abbia la sua base nel fatto che questi è mediatore tra il pubblico, con la sua lentezza, la sua burocrazia, i suoi ingranaggi, e il privato, con le sue esigenze immediate. Questo lo pone in una situazione di ambiguità e di debolezza”.
 
L’avvocato, il libero professionista per eccellenza...
“Libera professione? Non è proprio così... Il nostro lavoro è soggetto alla volontà di un enorme numero di dipendenti pubblici, che non fanno altro che ostacolarlo. La precarietà è innanzitutto economica: la concorrenza è enorme e quasi senza regole. Aggiungi la precarietà degli orari. Le attese infinite. Le vessazioni da parte dei dipendenti degli uffici pubblici...”.
Sembra una pagina di De Silva.
Chiediamo ad Alessandra se secondo lei le cose sono cambiate negli ultimi anni, e in quale direzione.
“Quando sono diventata avvocato, superare l’esame di stato non era difficile come oggi. Ma in realtà non esiste un numero chiuso, né all’esame di stato, né alla facoltà di Giurisprudenza. Istituire il numero chiuso non conviene a nessuno. Non allo Stato, perché in questo modo siamo tutti «formalmente occupati», iscritti all’ordine, etc., e non aumentiamo il numero degli inoccupati. E non conviene neanche ai grandi studi legali, perché stando così le cose ci sono molti «pesci piccoli» a farsi concorrenza fra loro, senza sbarrare la strada ai pochi «pesci grossi»”.
 
A questo punto ci sembra quasi impossibile che tanti giovani aspirino ancora alla carriera forense. “Molti vogliono fare questa professione perché credono di poter essere autonomi e di venire premiati per il loro lavoro. Ma sempre più spesso i giovani si rendono conto delle difficoltà già durante il periodo di praticantato, e lasciano. Molti di più rispetto a dieci anni fa. Sono proprio gli avvocati più giovani a vivere la situazione di precarietà più grave, insieme ai praticanti, che lavorano ore e ore negli studi e sono sottopagati o addirittura non pagati.”
 
A proposito di praticanti.
Emanuele ha 24 anni e si è laureato in giurisprudenza un anno fa. Attualmente svolge i suoi due anni di pratica, necessari per poter accedere all’esame di Stato per l’avvocatura. Gli chiediamo innanzitutto chi sono i praticanti e di cosa si occupano.
“Dopo la laurea, si apre un’affannosa ricerca dello studio presso cui svolgere la pratica. All’albo dei praticanti si iscrivono tutti. Ora, la pratica è di due tipi: può essere seria, e ciò vuol dire che il praticante si impegna effettivamente presso lo studio, oppure fittizia, cioè lo studio si limita ad attestare che il praticante ha prodotto un certo numero di presenze. Dopo la pratica, si sostiene l’esame di Stato, che è difficilissimo da superare. L’anno scorso ce l’ha fatta solo il 22% dei candidati. La commissione d’esame è nominata dal Consiglio dell’Ordine e aver svolto il praticantato presso un avvocato influente può essere determinante per l’esito dell’esame”.
 
Prendiamo un praticante “serio”, che vuole imparare la professione. Di cosa è tenuto ad occuparsi?
“Il regolamento forense prevede che il praticante sia retribuito e che non gli siano affidate mansioni esecutive. In realtà, almeno a Napoli, accade il contrario. Il laureato, che esce dall’università senza alcuna competenza professionale, svolge un lavoro non funzionale alla sua preparazione: per lo più, mansioni burocratiche per lo studio. Le ore che passa tra lo studio e il tribunale sono moltissime, ma la sua crescita professionale è davvero ridotta. L’avvocato presso cui si svolge la pratica è detto dominus – padrone –...”.
 
Un nome che è tutto un programma! Possiamo immaginare quale sia la condizione in cui si trova il praticante dal punto di vista psicologico. “È chiuso in una gabbia emotiva. È del tutto in soggezione rispetto alla struttura, ed è convinto che il dominus gli stia facendo un favore permettendogli di lavorare gratis per lui”.
 
E cosa succede ai fortunati – se così possiamo definirli – che superano l’esame di Stato?
“I più bravi rimangono solitamente nello studio del dominus. Soprattutto nell’ambito del diritto penale, è difficile che un giovane avvocato riesca ad inserirsi nel mercato. Di solito si diventa autonomi dopo almeno una decina d’anni. A Napoli, c’è un penale detto «nero», legato agli ambienti della criminalità; gli avvocati che si occupano di penale nero costituiscono un vero e proprio giro”.
 
Come quello in cui viene coinvolto l’avvocato Malinconico.
“C’è poi un penale detto «bianco», che riguarda i cosiddetti reati minori, connessi all’imprenditoria. I nomi degli avvocati che si occupano di questo ramo del penale circolano negli ambienti professionali. Nel civile invece si guadagna di meno, ma c’è più mercato”.
 
Il protagonista dei libri di Diego De Silva accenna al fatto che gli avvocati non hanno coscienza di essere una categoria.
“È vero, è una categoria che non si sente tale. L’avvocato è in perenne ostilità con il cliente, in conflitto con i propri colleghi, e prova frustrazione rispetto ai magistrati. Allo stesso tempo, subisce il continuo ostruzionismo da parte del settore pubblico e solo questo genera a volte una sorta di istinto di solidarietà”.
Con questi presupposti, com’è mediamente la qualità della vita di un avvocato?
Scadente, come puoi immaginare. Non devi sottovalutare poi i problemi logistici, gli spostamenti – soprattutto in una città come Napoli – gli orari estenuanti, la vita nel tribunale che è una vera «giungla», il livello bassissimo dei rapporti umani”.
 
Molte difficoltà sembrano provenire proprio dal numero: troppi avvocati, troppi praticanti e, alla base, troppi laureati.
 
“Solo nel foro di Napoli ci sono 12.000 iscritti all’albo, 200.000 in tutta Italia. Non tutti gli iscritti però esercitano realmente la professione. Ma il numero non può diminuire, perché c’è bisogno da più punti di vista di questa classe di giuristi. Gli avvocati hanno bisogno della massa di praticanti a bassissimo costo che si occupano delle mansioni esecutive. Ne hanno bisogno anche psicologicamente. L’Ordine ha ereditato la struttura delle corporazioni medievali, e anche la sua tipica psicologia, basata su rapporti di forza.”
 
Avvocati e praticanti: due ruoli all’apparenza diversissimi, eppure spesso destinati ad un destino comune, che è l’impossibilità di programmare il futuro. Ma soprattutto, due categorie di cui colpisce l’assenza pressoché totale di organizzazione (sindacale, associazionistica, o di qualunque altro tipo).
Speriamo che il successo di Diego Da Silva e delle maldestre avventure di Vincenzo Malinconico possa costituire un’occasione per riflettere – oltre che sorridere – su tutto questo.
 
Letture
 
Diego De Silva, Non avevo capito niente, Einaudi, 2005.
Diego De Silva, Mia suocera beve, Einaudi, 2010.

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