Attentato di Brindisi, caso Adinolfi: perché la Cancellieri sta sbagliando tutto

par Aldo Giannuli
mercoledì 23 maggio 2012

Sia l’attentato di Genova ad Adinolfi che quello di Brindisi hanno rilanciato l’idea di una nuova stagione terroristica, fortemente enfatizzata dai media in un crescendo ansiogeno. Che questi siano episodi da non prendere assolutamente sotto gamba non ci piove. Che questi due ed altri episodi similari possano essere collegati ed avere una regia di più ampio respiro è ipotesi da vagliare con cura. 

 

Dunque, conviene alzare la guardia. Ma di qui a farsi prendere da attacchi di panico, ne corre. Non ho mai visto un ministro dell’Interno infilare una serie di sciocchezze una di fila all’altra come in questo caso: matrici degli attentati sparate a casaccio, quando ancora le indagini devono prendere quota, misure incongrue tutte spostate sul lato difensivo, errori di analisi grossolani che mettono nello stesso sacco attentati di tipo terroristico con gli assalti alle sedi di Equitalia ecc. Ma il disastro maggiore è la gestione comunicativa dei casi. Mi perdonerete se faccio qualche considerazione preliminare sul modo in cui “funziona” il terrorismo.

Partiamo da un punto: gli attentati terroristici, da un punto di vista militare, hanno una incidenza molto bassa ed - in casi come questi - praticamente nulla. Il valore di una azione terroristica sta nell’effetto psicologico che determina e, quindi, il punto più delicato è il modo con cui l’attentato “passa” sulla stampa e in televisione. Dunque, la gestione comunicativa è tutto nello scontro fra lo Stato e la minaccia terroristica. I terroristi mirano a perseguire soprattutto tre risultati:

-spingere lo Stato a difendere quanti più obbiettivi possibile con un tremendo spreco di mezzi e denaro;

-dare all’opinione pubblica la sensazione che lo Stato sia debole, ridotto sulla difensiva e sostanzialmente incapace di difenderli;

-costruire verso l’estero una immagine di grande fragilità del sistema politico colpito, di un paese prossimo alla guerra civile, indebolendone la posizione internazionale;

Proprio per questo, lo Stato deve rassicurare la sua opinione pubblica e quella internazionale di avere il pieno controllo della situazione, sottolineando che il ricorso ad azioni del genere rivela la debolezza dell’avversario che verrà sconfitto con una azione di polizia. Per cui, prima regola fondamentalissima, di intervento dell’esercito non si deve parlare MAI!

Anche solo ventilare l’intervento dell’esercito – anche in semplici operazioni di pattugliamento - significa ammettere di non riuscire a controllare il territorio con i mezzi di ordinaria amministrazione o che, peggio, si stia profilando una guerriglia. Il terrorismo passa alla sua fase superiore proprio quando cessa di essere un problema di polizia per diventare un problema militare. Dunque, parlare di esercito quando questo non sia strettamente necessario è la più solenne castroneria che un ministro possa fare. E questa fesseria è stata fatta nell’immediatezza del caso Adinolfi, salvo rimangiarsi tutto dopo un paio di giorni. Sciocchezza ulteriore: se ci si accorge di aver sbagliato, mai farlo notare, ma lasciar cadere la cosa come se non fosse mai stata detta. Le oscillazioni di questo genere danno la sensazione di un governo che non sa bene cosa fare e spara cose a casaccio: quanto di peggio si possa fare.

Dunque, la comunicazione deve essere improntata a rassicurare e la prima cosa da evitare è quella di dare la sensazione che ci si stia chiudendo a difesa. E’ esattamente quello che i terroristi vogliono e che non bisogna mai fare: cercare di difendere tutti gli obiettivi immaginabili è inutile, dannoso ed impossibile. Inutile perché se proteggo A rendo più vulnerabile B che non ha protezione, se proteggo anche B, scarico il rischio su C e così via; dannoso perché logora le forze dello Stato (Mao, che queste cose le sapeva, diceva che la strategia del guerrigliero è “contrapporre uno a cento” e la tattica “attaccare uno con cento”). Ma soprattutto impossibile perché, per quanto ci si sforzi, non ci saranno mai abbastanza forze per proteggere tutti gli obbiettivi possibili. Dunque la strategia deve essere in attacco e non in difesa e questo vale anche per la comunicazione: può anche darsi che ci siano 14.000 obiettivi a rischio, ma non bisogna dirlo mai e invece, il Ministro Cancellieri lo ha detto, tradendo l’ansia di far vedere all’opinione pubblica che “si sta facendo tutto il possibile”. Poi, al primo attentato, l’opinione pubblica deduce che il tentativo di proteggere gli obiettivi dai terroristi è fallito e la cosa ha effetti psicologici spaventosi. Una dichiarazione del genere è una mossa da dilettante.

Peraltro, ad ascoltare le autorità statali non ci sono solo l’opinione pubblica interna e quella estera, ma anche i terroristi e, dunque, bisogna evitare sia di dargli la sensazione di stare ottenendo i risultati prefissi sia di dar loro informazioni inopportune. Semmai, la comunicazione deve mirare a renderli più insicuri o spingerli a fare mosse sbagliate. Per cui è opportuno fare vagamente cenno a nuove metodologie di indagine, a tecniche sperimentali ecc. Soprattutto è necessario capire quali siano i reali obiettivi dell’azione per poter esercitare un contrasto efficace. E qui toccherebbe al settore analisi dei sevizi dare piste investigative credibili. Ma, a proposito, come mai servizi e polizia non hanno avuto alcun sentore di quel che bolliva in pentola né per Genova né per Brindisi? Forse è il caso che Monti e la Cancellieri chiedano spiegazioni ai responsabili dei sevizi e si presentino in Parlamento per darne conto.

Ma, questo ministro dell’Interno –che dovrebbe essere un “tecnico” della materia- dove ha imparato a gestire l’ordine interno? Più che tecnici questi sembrano dilettanti allo sbaraglio.


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