Asso28, c’è un uso geoeconomico dietro i respingimenti?

par Edizioni Omissis
martedì 23 ottobre 2018

Salvare i migranti per rispedirli verso torture, sfruttamento e schiavitù: dopo i respingimenti delle navi Aquarius (10 giugno 2018) e Diciotti (20 agosto) e l'operazione "chiudiamo i porti" sembra essere questa la nuova politica antimigrante adottata dall'Italia nel Mediterraneo. È quanto accade il 30 luglio 2018, quando la nave “Asso 28” dell'armatore Augusta Offshore salva e poi riporta verso la Libia 101 migranti. Il dettaglio che il capitano della nave, Pierluigi Galano, condivida post anti-migranti sui suoi profili social appare un dettaglio di una storia più grande. Molto più grande.

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“Respingimento collettivo di migranti”: è questa l'accusa imputabile all'Italia – che già nel 2009 viene condannata (all'unanimità) per lo stesso reato, attraverso la sentenza CEDU “Hirsi Jamaa e altri v. Italia” – se verrà confermato che il Maritime Rescue Coordination Centre (I.M.R.C.C.)[1] di Roma ha di fatto declinato le proprie responsabilità alla controversa Guardia Costiera libica, finanziata e rifornita gratuitamente di motovedette dall'Italia, cui spettano anche i costi di manutenzione. Insomma: quella di Tripoli è di fatto una guardia costiera italo-libica.

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Ricerca, soccorso e...responsabilità

Dal 2012 al 2017, infatti, le attività di soccorso (SAR, Search and Rescue in inglese) sono state coordinate dalla nostra Guardia Costiera, grazie anche all'interessamento di navi private come la “Asso 28”. Una politica che è andata modificandosi con la creazione – grazie al sostegno e al finanziamento dell'Unione Europea – di un'area SAR nel mar libico e l'apertura di un centro di coordinamento a Tripoli. La posizione italiana sulla vicenda – dall'armatore alla nostra Guardia Costiera fino alle istituzioni di Roma – è unanime: la responsabilità dell'operazione, avvenuta nell'area di competenza libica, è del governo di Tripoli. «Il disegno, dunque, è dare formalmente competenza (o mano libera ai libici)» evidenzia Duccio Facchini su Altreconomia.

L'Italia, qualora fosse confermata la responsabilità dell'I.M.R.C.C di Roma, si troverebbe ad aver violato:

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Com'è la voce grossa di un governo fantoccio?

Questa nuova politica si sviluppa su entrambe le coste del Mediterraneo: nelle stesse ore dell'affaire-”Asso28” e mentre incontra l'a.d. Eni Claudio Descalzi, il premier di Tripoli Fayez al-Sarraj inasprisce la sua posizione su migranti e ong. Due gli obiettivi di questa politica, che porta anche al blocco dell'intervento italiano contro lo Stato Islamico: rinsaldare internamente il suo governo – al-Sarraj non ha alcun potere sul territorio – e contrastare quello del Feldmaresciallo Khalifa Haftar, uomo forte del governo di Tobruk guidato dall'ex premier libico Abdullah al Thinni. Perché le vicende della “Asso 28”, della “Aquarius” e della stessa pregiudiziale antimigrante italo-libica nascondono un gioco ben più ampio.

Migranti&Petrolio

Quando viene chiamata in causa, il 30 luglio, la “Asso 28” sta effettuando assistenza alla piattaforma di estrazione della “Mellitah Oil&Gas”, 40 chilometri a ovest di Sabrata, snodo principale del traffico di esseri umani libico e da cui arriva il gas a Gela tramite il gasdotto “GreenStream”. La MOG viene creata nel 2008 come joint venture tra l'Eni e la National Oil Company – compagnia petrolifera di Stato libica – e la stessa Augusta Offshore di Napoli, società del gruppo CA.FI.MA della famiglia Cafiero-Mattioli, che da oltre trent'anni supporta le attività estrattive dell'Eni nel mar libico. Dal 2012 la società è stata chiamata in operazioni SAR «262 volte, soccorrendo 23.750 persone» e «interrompendo le normali attività commerciali per un totale di 137 giorni, pari a 5 mesi».

Quanto c'è di vero nelle dichiarazioni di Nicola Fratoianni (Liberi e Uguali) che, a bordo della nave Open Arms, ha dichiarato che i richiedenti asilo sarebbero stati respinti in Libia «su indicazione dell'Eni», che smentisce qualunque coinvolgimento? Perché non rendere pubbliche quelle «prove» di cui il deputato parla al Fatto Quotidiano? E soprattutto qual è il ruolo dell'Eni nella politica anti-migrante italo-libica?

Per comprendere le vere motivazioni dei respingimenti adottati dall'Italia – con Salvini mero prosecutore di decisioni prese dai precedenti governi, ad iniziare dall'esecutivo guidato dal Partito Democratico – e del quadro (geo)politico attualmente sviluppato in Libia è forse più interessante guardare non ai barconi quanto a quella National Oil Company al centro degli interessi di Italia e Francia, membri di più ampie coalizioni internazionali con interessi contrapposti sul futuro della Libia e, soprattutto, del suo petrolio.

A fine giugno Francia, Italia, Regno Unito e Stati Uniti hanno dichiarato di essere «profondamente preoccupati» per il passaggio dei giacimenti e degli impianti petroliferi di Ras Lanuf e Sidra – nella “Mezzaluna petrolifera”, area nel nord-est della Libia sotto il controllo del Parlamento di Tobruk e dalla quale provengono i due terzi della produzione petrolifera libica – «ad un'entità diversa dalla legittima National Oil Corporation», unica società petrolifera riconosciuta e legittimata dal Governo di Accordo Nazionale guidato da al-Sarraj, dalla comunità internazionale e dall'Opec.

Al centro delle preoccupazioni la volontà di Khalifa Haftar di concedere il controllo dei porti alla compagnia petrolifera dei territori orientali – la Bengasi National Oil Corporation (NOC-est) – decisione arrivata durante gli scontri, iniziati il 14 giugno, tra l'autoproclamato Esercito Nazionale Libico (LNA) di Haftar e le milizie ribelli del Petroleum Facilities Guards (PFG) di Hibrahim Jodran e Mohamed Koshlaf – che controlla il centro di detenzione di Zawiyah, vicino al governo di Tripoli, per il controllo dei siti petroliferi di Ras Lanuf e Sidra. Una decisione necessaria, secondo il Governo di Tobruk, per eliminare il traffico di petrolio e tutelare i contratti firmati con le compagnie internazionali, nonostante la stessa NOC-est abbia violato l'embargo (Risoluzione ONU 2362 approvata nel 2017) vendendo petrolio e, secondo le istituzioni di Tripoli, compiendo «un'operazione di pirateria sulle risorse libiche» in quanto Haftar non «possiede l'autorità legale per determinare chi controlla le esportazioni di petrolio».

Per approfondire:

Queste risorse vitali per la Libia devono rimanere sotto il controllo esclusivo della National Oil Company, legittimamente riconosciuta, e sotto la sola supervisione del governo di unità nazionale, come dichiarato nelle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite […]Qualsiasi tentativo di aggirare il regime di sanzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite danneggerà profondamente l'economia libica, aggravando la crisi umanitaria e minando ulteriormente la stabilità del paese

hanno minacciato le cancellerie di Roma, Parigi, Londra e Washington.

Haftar vs al-Sarraj: una “proxy war” africana per l'Italia?

Se le minacce sono congiunte, meno lo sono gli interessi sul terreno. Sulla pelle dei migranti, tra le camere di tortura dei centri di detenzione euro-libici (34 in tutto, di cui 24 “statali” come Sharie al Matar o Tariga Siga in cui sarebbero detenute tra le 4.000 e le 7.000 persone) fin dal 2011 la Libia è teatro dello scontro per procura tra Italia e Francia, in una proxy war che in Libia si sviluppa tra al-Sarraj e Haftar lungo le vie del petrolio e del gas (Fezzan) ma che coinvolge anche l'uranio del Niger e i minerali dell'area del Sahel, non a caso aree di «origine e transito» dei flussi migratori.

Flussi che, evidenzia una inchiesta dell'Associated Press, sono gestiti dall'Unione Europea anche grazie all'operato di alcune milizie libiche (300 al settembre 2018 secondo i dati Agi) come la fantomatica “Brigata 48” o la brigata “Martire Abu Anas al Dabbashi”, guidate rispettivamente dai fratelli Mehemmed e Ahmad al-Dabbashi, quest'ultimo ex eroe di guerra ora tra i principali trafficanti di esseri umani del Paese. Secondo l'inchiesta AP, è con questi reti criminali che l'Italia ha stretto i veri accordi per bloccare in Libia i migranti, saltando la mediazione di al-Sarraj. Il gruppo al-Dabbashi è noto per aver gestito la sicurezza della piattaforma "Mellitah Oil&Gas", ma l'Eni smentisce. Quel che è certo è che «i trafficanti di ieri sono le forze anti-trafficanti di oggi», come dicono in Libia.

Per approfondire:

Come in Yemen, come in Siria, anche in Libia i Paesi direttamente coinvolti sono espressione di più ampi blocchi di potere internazionali: da un lato l'Italia che dopo i recenti incontri Trump-Conte diventerà il tramite di Washington per acquisire petrolio, fermare il jihadismo (e non solo) senza muovere un solo soldato sul campo in osservanza al “disimpegno mediterraneo” voluto dal Presidente Trump; dall'altro la Francia, espressione di una coalizione composta oltre che da Parigi anche da Russia, Egitto, Iran e varie monarchie della Penisola araba, la cui agenda vede l'esclusione italiana dal mercato petrolifero libico – sostituita proprio dalla Francia – e la diminuzione dell'influenza politico-economica di Roma sulla futura Libia, nelle intenzioni di questo gruppo guidata dal Feldmaresciallo Haftar come testa di ponte per il controllo del Mediterraneo e del Mar Rosso, in parte già controllato grazie alla Marina militare iraniana. In quest'ottica è da leggersi la volontà russa di aprire una base navale a Bengasi, da aggiungere alla base già operativa in Siria.

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È in questo contesto che va letta la politica “antitaliana” di Haftar, che nell'agosto 2017 blocca qualsiasi possibilità di commercio delle nostre aziende in Cirenaica (Risoluzione n.37 del 14 agosto 2017) per la «aperta ostilità verso il popolo libico» di Roma, accusata – non sempre a torto – di trattare la Libia come un'ex colonia.

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Ed è in questo stesso contesto che, dichiara il senatore Luigi Manconi, si inserisce la “sudditanza” di Roma all'Egitto di Abdel Fattah al-Sisi, necessaria sia per proteggere un fondamentale canale di approvvigionamento energetico quanto per avere un canale diplomatico aperto con Haftar nel caso in cui la comunità internazionale decidesse di abbandonare al-Sarraj, di cui è da sempre noto il poco potere interno. Senza dimenticare che nel 2011 i terminal dell'Eni sono stati inseriti tra gli obiettivi da colpire durante i bombardamenti aerei («ricatto», come lo definisce Alberto Negri su Linkiesta, che porterà all'ingresso dell'Italia nel conflitto), mentre David Cameron e Nicolas Sarkozy (dal marzo 2018 indagato per i finanziamenti elettorali ricevuti da Gheddafi) volano in Libia per accordarsi con i capi della rivolta anti-Gheddafi. Il piano è lo stesso che negli anni Sessanta l'Eni di Enrico Mattei sviluppa per l'Algeria: sostegno ai ribelli in cambio dei futuri contratti energetici per le compagnie anglo-francesi. È, tornando all'oggi, lo stesso “gioco” che a parti invertite l'Italia sta cercando di fare in Niger, dove al petrolio si sostituisce l'uranio.

Mentre Haftar dichiara di voler fermare i migranti in Libia con un Trattato europeo simile a quello Bruxelles-Ankara, sulla falsariga del Migration Compact - nonostante un potere che pare inizi a vacillare tra le potenze che lo hanno fin qui sostenuto - lo scontro tra i due blocchi in Libia potrebbe frenare anche la strategia sviluppata con l'accordo di pace del 31 marzo 2017 voluto dall'ex ministro dell'Interno Marco Minniti con le tribù Awlad Suleiman, Tebu e Tuareg del Fezzan – note per essere dedite allo schiavismo e al traffico di armi e droga – per bloccare i migranti, l'espansionismo della Francia e per aprire un canale verso il Sudan.

È nel petrolio Eni che si decide la politia antimigrante italiana?

48% della produzione petrolifera e 41,1% della produzione di gas naturale – grazie ai giacimenti in Cirenaica e Fezzan: sono i dati della presenza dell'Eni in Libia, principale fornitore di gas nel mercato locale (con 20 milioni di m3 al giorno interamente destinati alle centrali elettriche) che a luglio ha annunciato l'avvio della produzione del progetto offshore Bahr Essalam, il più grande in Libia (260 miliardi di metri3 di gas a 120 chilometri a nord-est di Tripoli). Una presenza che la Francia prova a diminuire grazie a Total – come l'Eni attiva nel Paese da decenni - che a marzo ha acquistato per 450 milioni di dollari il 16,3% della concessione Waha, di proprietà della statunitense Marthon Oil Libya, assicurandosi così una capacità produttiva di 100.000 barili di petrolio al giorno contro i 320.000 dell'Eni, che a marzo ha annunciato la volontà di diminuire fino a 200.000 barili al giorno entro il 2021. A luglio i vertici della compagnia petrolifera francese hanno incontrato i pari grado del NOC – che Parigi vorrebbe smantellare, come l'intera Libia – per estendere gli accordi di cooperazione in un ampio programma diplomatico che nel 2017 ha portato all'incontro tra al-Sarraj e il ministro degli esteri russo Sergey Lavrov.

Per approfondire:

L'”attacco” al potere libico del Cane a sei zampe è possibile grazie al ridimensionamento geopolitico dell'Eni in Africa come il blocco dell'affare con l'Uganda di Museveni (2007) proprio per il ruolo di Gheddafi nella società – non dichiarato al governo di Kampala – fino al più recente processo per il giacimento Opl245 in Nigeria.

Ma gli interessi italo-francesi in Libia si scontrano anche lungo l'asse Enel-Gdf Suez e lungo le vie del gasdoto Green Stream – che collega Mellitah a Gela coprendo il 10-15% delle nostre importazioni petrolifere – e dell'autostrada Ras Ejdyer-Emsaad costruita da Anas International Enterprise lungo i 1.700 km litorali della vecchia via Balbia (125,5 milioni di euro). Quando la Libia sarà stabilizzata si aprirà un nuovo capitolo dello scontro: quello per la ricostruzione del Paese. Un capitolo che tutti vorrebbero aprire con l'elezione di un Governo di unificazione nazionale (che la Francia vorrebbe nel dicembre 2018) in grado di richiedere ufficialmente l'intervento militare straniero, ponendo così fine al conflitto al-Sarraj-Haftar e aprendo una nuova partita tra i loro paesi-sponsor. Ancora una volta sulla pelle dei migranti.

Note:

  1. Istituiti con la legge n.147/1989 – che ratifica la Convenzione di Amburgo del 1979 sul soccorso marittimo, attuata dall'Italia solo nel 1994 (D.P.R. 662) il Centro Nazionale di Coordinamento del Soccorso Marittimo (Italian Maritime Rescue Coordination Centre, I.M.R.C.C., in inglese) fa capo al Comando Generale del Corpo delle Capitanerie di porto e ha il compito di organizzare tutte le attività necessarie al salvataggio di vite umane in mare, potendo contare tanto su unità militari che civili. In base alla Convenzione di Amburgo ha inoltre il compito di mantenere i contatti con gli altri Stati per coordinare gli aiuti;

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