Articolo 18 e la libertà di licenziare

par Andrea Sironi
mercoledì 7 settembre 2011

Il Governo è riuscito a raggiungere uno dei suoi tanti obiettivi finalizzati allo smantellamento del mondo del lavoro. Con l’approvazione – da parte dellaCommissione Bilancio – dell’emendamento sulla deroga dell’articolo 18, le intese che verranno sottoscritte a livello aziendale o territoriale, andranno a stralciare il contratto nazionale e tutte quelle regolamentazioni nazionali, compreso lo Statuto dei Lavoratori.

Ciò vuol dire, che anche le aziende con più di quindici dipendenti potranno ricorrere all’utilizzo del licenziamento senza giusta causa, attraverso il via libera dei sindacati maggioritari in azienda. In sostanza, il sindacato potrà firmare con le aziende accordi per far licenziare i lavoratori.

Uno stravolgimento dei rapporti di lavoro, inaspriti all’inverosimile da normative che andranno a colpire i diritti, a sbilanciare ulteriormente le posizioni di potere, nelle quali il lavoratore è stato confinato nel punto più basso e più paludoso. Una pedina da poter muovere a piacimento dalle aziende, pedina che diventerà presto vittima di un sistema sempre più forte e sempre più responsabilizzato ad imporre tempi e metodi.

Un contesto nel quale la sicurezza – per esempio – ricoprirà un ruolo sempre più marginale, in quanto le aziende diverranno “precarie” in più aspetti, dove il ricatto mescolato alla paura sarà indiscusso.

A tal proposito, in Italia, analizzando i dati riguardo la sicurezza sul lavoro, si deduce che il brusco calo dell’occupazione e delle ore effettivamente lavorate, non ha determinato un decremento dei morti sul lavoro, dato che esprime lucidamente le grandi dimensioni di un fenomeno estremamente trascurato e sottovalutato.

Uno studio dell’Osservatorio indipendente sulle morti sul lavoro di Bologna e dell’Osservatorio sicurezza sul lavoro della Vega Engineering di Mestre, illustra che nel primo semestre del 2011 sono morte sul lavoro 255 persone, contro le 218 dei primi sei mesi del 2010. Un aumento pari al 17%.

Secondo la ricerca i settori produttivi più colpiti sono l’agricoltura e l’edilizia, con rispettivamente il 38% e il 23,1% delle morti. Il drammatico primato spetta alla Lombardia con 37 vittime, seguita dall’Emilia Romagna con 22 vittime, poi il Piemonte e Veneto con 21 vittime, infine la Sicilia con 20 vittime e la Toscana con 19. Se dovessimo, invece, rapportare il numero dei morti al numero delle persone che realmente lavorano, la Regione più colpita sarebbe la Valle d’Aosta, con una incidenza sugli occupati pari a 53,2, contro una media nazionale di 15,6, secondo l’Abruzzo con un 32,4, terza la Basilicata con 21, quarto il Molise con 18,1 e quinto il Trentino con 17,1.

Oggi, 6 settembre 2011, si scende in piazza per rispondere agli attacchi finora inferti al mondo del lavoro. Lo sciopero generale dovrà essere l’inizio di una mobilitazione più articolata, capace di dar vita ad una politica che rimetta al centro il complesso e destrutturato sistema dei rapporti di lavoro e della loro sicurezza, non solo in termini “temporali”.

Non è più accettabile che fra lo stipendio medio di un dirigente e la paga di un operaio ci sia una differenza di 356 euro al giorno. Non è più accettabile che i disoccupati di lunga durata – cioè quelli con più di 24 mesi di disoccupazione – siano il 45% del totale. Non è più accettabile che gli “inattivi” – cioè quelli che hanno rinunciato alla ricerca di un posto di lavoro – siano il 10% della forza lavoro, percentuale doppia rispetto al resto d’Europa. Non è più accettabile morire di lavoro, in tutti i sensi.

Il lavoro deve riscoprire la sua essenza, la sua importanza strategica per il futuro della nostra Democrazia, attraverso una mobilitazione costruttiva e impegnata a fondare le basi di una nuova cultura.


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