Arnesi: i bambini dimenticati di una storia dimenticata
par Elisabetta Rasicci
giovedì 5 giugno 2025
Albertino ha nove anni. Una biglia viene ingoiata per errore durante un gioco qualsiasi, e quello che per chiunque sarebbe un episodio insignificante, per lui diventa la condanna all’invisibilità.
È il 1967, e per Albertino l’infanzia finisce sulle soglie di un manicomio: Villa Azzurra, alle porte di Torino. Un luogo che accoglieva, o forse meglio dire rinchiudeva, bambini di nessuno, figli della miseria, del silenzio o semplicemente della sfortuna. Proprio come lui.
Là dentro, il dolore prende il nome di terapia. E il suo aguzzino ha un nome e un titolo: Giorgio Coda, psichiatra, “esperto”, rispettato in certi ambienti, ma ricordato oggi con un soprannome che dice tutto: l’elettricista. Perché utilizzava senza scrupoli l’elettroshock, anche su bambini, alla testa, al pube. Come cura, ma spesso era solo una punizione. Albertino è una delle sue vittime. Uno dei tanti che non dimenticheranno mai il dolore e l'orrore provato li dentro.
Ma qualcosa, intanto, in Italia si muove. Gli anni della contestazione studentesca iniziano a incrinare l’apparato, e il muro di silenzio che circonda i manicomi comincia a sgretolarsi. Ci vorrà però un’immagine per far tremare davvero le coscienze. Quell’immagine arriva nel 1970: un giovane fotoreporter, Mauro Vallinotto, riesce a entrare a Villa Azzurra con una macchina fotografica nascosta sotto la giacca. Le sue foto finiscono su L’Espresso. In una, una bambina è legata nuda a un letto, crocifissa al letto in tutta la sua fragilità. È un grido fortissimo che l’Italia non può più ignorare.
Il caso esplode. Coda viene denunciato. E, per la prima volta, nel 1974, un tribunale mette al banco degli imputati un medico e ascolta la voce dei malati, dei reclusi, di chi fino a quel momento era stato considerato “non credibile”. Le vittime parlano, le ferite si mostrano. Coda viene condannato, ma non farà un giorno di prigione. Continuerà a lavorare nel privato, come se nulla fosse.
Albertino, invece, comincia una nuova vita. Viene adottato dai Berlanda, una famiglia partigiana. Franco e Bianca, i genitori adottivi, gli aprono la porta di una casa fatta di memoria, lotta e ideali. I figli, Alvar e Alice, militano in Lotta Continua. Albertino cresce dentro quella spinta al cambiamento. Torino, in quegli anni, ribolle. Radio libere, collettivi autogestiti, circoli come Pavone, Montoneros, Barabba: luoghi in cui si pensa, si sogna, si agisce.
Ma l’utopia, spesso, inciampa nella realtà. È l’autunno del 1977. A Roma, un militante di sinistra, Walter Rossi, viene ucciso. Il giorno dopo, Torino risponde. Migliaia di giovani scendono in piazza. Tra tensioni e scontri, un gruppo si stacca dal corteo e si dirige verso l’“Angelo Azzurro”, un bar che, per un malinteso, viene considerato ritrovo di neofascisti. In verità, i proprietari sono di sinistra, ma la voce ha già fatto il suo corso.
Il bar viene assaltato con molotov. Tutti fuggono. Tutti, tranne uno: Roberto Crescenzio, 22 anni, studente. Roberto cerca riparo nel bagno, ma il fuoco lo raggiunge. Esce avvolto dalle fiamme. Alcuni militanti di sinistra provano a spegnere il fuoco ma il giovane muore poco dopo. Un errore. Una tragedia.
Anni dopo, uno dei partecipanti ricorderà: "Quando Roberto è uscito in fiamme, abbiamo provato a coprirlo, a spegnerlo… ma era già troppo tardi. In quel momento, tutto è crollato. Il movimento a Torino è finito lì.”
Albertino in quell'incidente non c'entra, è sconvolto ma non si arrende. Il dolore che si porta dentro dall'infanzia cerca ancora giustizia così entra nelle Squadre Armate Proletarie e il suo passato diventa bandiera. Il 2 dicembre 1977, alcuni militanti fanno irruzione nello studio del dottor Coda. Lo legano ad un termosifone, lo processano sommariamente, lo gambizzano e gli appendono al collo un cartello con su scritto "il proletariato non perdona le sue vittime".
Una vendetta, ma per Albertino è anche un punto di rottura. La violenza non è la risposta, così decide di uscire dalla lotta armata.
Ma questo purtroppo non basterà. Viene comunque condannato per l’assalto all’Angelo Azzurro malgrado la sua innocenza e in carcere contrae l’AIDS. Muore nel 1991, a soli trentatré anni.
Di Giorgio Coda, dopo l’aggressione, si perdono le tracce pubbliche. Ma il suo nome resta inciso nella storia come una cicatrice. Il processo, però, ha lasciato il segno. È anche grazie a quelle voci ascoltate, a quei racconti sopravvissuti all’orrore, che nel 1978 nasce la Legge Basaglia. I manicomi vengono chiusi e l’Italia prova a svegliarsi.
Quella di Albertino non è solo la storia di un bambino, né solo di un’epoca. È la storia di uno Stato che ha smesso di vedere, di ascoltare, di proteggere. E di chi, nonostante tutto, ha cercato di farsi sentire.
A raccontare questa vicenda è il podcast “Arnesi – Bambini in manicomio” disponibile su Audibile.
Lavorare a questo podcast, scritto insieme a Pasquale Formicola e con la collaborazione di Roberta Lippi, per me è stato molto più di un lavoro.
È stato un viaggio. Un viaggio dentro la memoria di questo Paese, sì. Ma soprattutto un viaggio dentro me stessa.
Dentro le mie paure, le mie ferite, la mia rabbia, e quel desiderio profondo di dare voce a chi non ha mai potuto parlare.
Un viaggio necessario nel cuore più fragile e dimenticato del nostro passato.