Ariel Sharon, la via del pragmatismo

par Fabio Della Pergola
lunedì 13 gennaio 2014

Scrivere qualcosa sulla morte di Ariel Sharon è difficilissimo e anche rischiosissimo.

Perché ci si espone con estrema facilità al fuoco incrociato degli opposti e più radicali punti di vista sulla questione israelo-palestinese. E perché su Sharon incombe l’enorme responsabilità dell’aver lasciato fare ai cristiani maroniti libanesi, benché avesse la forza per impedirlo, quello che fecero nei campi profughi di Sabra e Chatila per vendicarsi della strage nel villaggio cristiano di Damur compiuta da militanti palestinesi, avvenuta in seguito della precedente strage del villaggio arabo di Qarantina da parte della Falange maronita.

E così via; si potrebbe continuare a lungo nella ricostruzione delle faide interne al mondo libanese, ma tutto ciò non distoglie affatto dal ruolo determinante che l'esercito di Israele ebbe nella strage dei campi profughi palestinesi in Libano.

Sharon, dopo i fatti, fu costretto a dimettersi da un’ondata di indignazione popolare che scosse Israele per giorni, fino ad una manifestazione di protesta che attraversò Tel Aviv cui parteciparono quattrocentomila persone (pari al 7% dell’intera popolazione israeliana dell’epoca, come se a Roma fossero sfilati quattro milioni di persone indignate).

Tornato in sella nella politica di primo piano nel 2000 fu il protagonista di una provocatoria passeggiata sulla spianata della Moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme, uno dei luoghi più sacri dell’Islam che, ovviamente, scatenò l’ira degli arabi musulmani e fu una delle cause dell’inizio della seconda, sanguinosa Intifada.

Ma fu anche l’unico premier israeliano che nel 2005, un anno prima del suo ictus, si impegnò nel ritiro dai territori “occupati”. Si deve alla sua controversa decisione (controversa perché mise in fibrillazione il suo partito, il Likud, al punto che preferì uscirne per fondare il centrista Kadima delle “larghe intese”) il ritiro totale dei coloni israeliani da Gaza e da alcuni insediamenti minori nella West Bank.

Gaza, per la prima volta dal 1967, fu un territorio palestinese libero. Un territorio in cui poteva sorgere un primo embrione di stato nazionale. Cosa mai verificatasi nemmeno nei vent’anni, tra il 1948 e il 1967 (cioè tra la prima guerra arabo-israeliana e la Guerra dei Sei giorni che pose fine alla presenza egiziana nella Striscia) quando gli israeliani erano al di là della linea verde. Ma sappiamo che cosa successe dopo con l’avvento di Hamas al potere nel 2007.

La questione dell’iniziale ritiro pone però problemi che sono tuttora sul tappeto, irrisolti.

Non fu certo per bontà d’animo che Ariel Sharon, detto “Ari”, impose al suo governo il ritiro da Gaza; fu per una decisione pragmatica. Suggeritagli dal più noto dei demografi israeliani: un professore dell’Università di Gerusalemme di origini italiane, che porta il mio stesso cognome per via di una lontana origine familiare comune, Sergio Della Pergola.

Il problema suscitato molti anni fa dagli studi demografici poneva il problema più ovvio per un paese nato su basi etniche come conseguenza del devastante antisemitismo europeo: Israele aveva, ed ha tuttora, davanti a sé tre possibilità. Essere uno stato ebraico o democratico o grande.

Lo stato "ebraico" è, nonostante lo scandalo recente sulla pretesa di Netanyahu che i palestinesi lo riconoscano come tale, un dato di fatto. La sua stessa ragion d’essere.

Ma è anche uno stato "democratico" nel senso che ogni cittadino, di qualsiasi etnia, lingua, religione, sesso ha gli stessi diritti politici e civili. Esistono partiti arabi, giornali arabi, trasmissioni televisive in arabo. L’arabo è lingua ufficiale al pari dell’ebraico. Il capo della polizia è un arabo, e di etnia araba e drusa sono due dei giudici della Corte Suprema israeliana. Che esista una sorta di squilibrio a favore degli ebrei e a scapito dei non ebrei, ad esempio nella destinazione delle risorse pubbliche in merito a edilizia, scuola eccetera è cosa detta e ripetuta; così come sono noti i complessi problemi relativi ad un’anagrafe gestita dal rabbinato in merito ai matrimoni che rende difficile, e a volte impossibile, ottenere la cittadinanza per i coniugi non ebrei di un cittadino ebreo; ma su tutto questo il dibattito all’interno dello stato è aperto e, si suppone, non sterile.

E’ possibile dire quindi che le basi della democrazia israeliana siano solide, nonostante tutto.

Grande Israele” è una definizione che considera tutto il territorio dal mare alla riva occidentale del Giordano come appartenente alla Israele “storica” o biblica. E vorrebbe ricalcare i confini dell’ipotetico, ma mai dimostrato, Regno di David e Salomone, i grandi Re del passato mitico.

Ovviamente è un tracciato che comprende la West Bank o Cisgiordania (ma non Gaza che era, anticamente, territorio dei Filistei) densamente abitata dai palestinesi e in cui dovrebbe sorgere, prima o poi, il loro stato. La Grande Israele è quindi una sorta di delirio religiosamente determinato su cui insiste, credendoci davvero, solo una piccola parte dello schieramento di estrema destra israeliano. Ma che ha il potere che gli deriva dall’ala più oltranzista dei coloni e dall’essere importante per la sopravvivenza del governo. 

Essere ebraico, democratico e grande non è quindi possibile per Israele perché uno dei termini, comunque la si giri, è inconciliabile con gli altri due, stante il progressivo sorpasso demografico, previsto per i prossimi decenni, della popolazione arabo-palestinese su quella ebraica.

Israele può essere ebraico e democratico (lo dimostra la sua storia attuale); può essere ebraico e grande, ma perderebbe la sua democraticità perché, inglobando tutta la popolazione palestinese, per continuare ad essere "ebraico" dovrebbe negarle i diritti civili; oppure può essere grande e democratico, ma perdendo la sua caratteristica "ebraica" per via della maggioranza araba della sua popolazione che si verrebbe a determinare entro breve tempo. La componente ebraica sarebbe di nuovo una minoranza in casa d’altri, vanificando così tutto il progetto sionista. La vittoria sfuggita finora ai palestinesi con mezzi militari, arriderebbe loro con i mezzi demografici.

Sharon ebbe il merito, e non è poco, di aver capito per tempo questo implacabile meccanismo sociale dalle inesorabili ricadute politiche. Continuare con la strategia attivata nei territori abitati prevalentemente da arabi, dopo la doppia vittoria del ’67 e del ’73 nei conflitti che gli stati arabi avevano sciaguratamente provocato, non era possibile.

Si può dire quello che si vuole di Sharon, ma non che fosse stupido. L’emorragia cerebrale che lo ha portato al coma e infine alla morte, ha probabilmente impedito all’uomo più odiato dai palestinesi di portare a termine il ritiro dei coloni ebrei da gran parte dei territori della West Bank, così come aveva fatto a Gaza. Cioè di fare quello che i palestinesi stessi chiedono da almeno quarant’anni.

Il che non significa affatto che poi sarebbero stati in grado, viste le numerose occasioni precedenti buttate al vento, di cogliere la possibilità storica per farsi stato; ma questo è un altro discorso.

Non resta che sperare che il governo Netanyahu, adotti, in positivo ovviamente, lo stesso pragmatismo di Ariel Sharon, cosa che, per ora, non sembra in grado di fare.

A meno che il presidente Obama, tutt'altro che un leader "minore" o deludente come certa stampa vuole insinuare, non abbia gli strumenti per fargli cambiare presto idee e strategia: la dead line è l'accordo finale con l'Iran sulla questione del nucleare. Israele dovrà cedere su qualcosa per avere in cambio più sicurezza e questo qualcosa potrebbe coincidere proprio con il pragmatismo del vecchio leader morto nei giorni scorsi.

 

Foto: Carl Malamud/Flickr

 


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